• Mondo
  • Mercoledì 4 maggio 2016

La diga di Mosul vista da vicino

Daniele Raineri ha visitato l'importante diga minacciata dall'ISIS e ha scoperto che i curdi sono meno preoccupati del resto del mondo dalla possibilità che crolli

(Daniele Raineri)
(Daniele Raineri)

Daniele Raineri, giornalista di esteri del Foglio, è stato a Mosul, nel nord dell’Iraq, per visitare la più grande diga irachena e la quarta di tutto il Medio Oriente. La diga di Mosul è importante e strategica per diversi motivi: innanzitutto per il controllo delle risorse idriche nella regione, ma anche perché se cedesse – per un atto volontario di distruzione o come conseguenza della scarsa manutenzione – potrebbe produrre un’onda alta 30 metri che colpirebbe in poco tempo la città di Mosul e altre città più a sud, causando inondazioni fino a Baghdad, la capitale dell’Iraq. La diga di Mosul, città che è considerata la capitale dello Stato Islamico in Iraq, si trova in realtà a circa 40 chilometri a nord di Mosul, ed è sul fiume Tigri.

La diga fu temporaneamente conquistata dallo Stato Islamico (ISIS), lo scorso agosto, ma fu poi ripresa dai peshmerga, i miliziani curdi iracheni, che la stanno tuttora difendendo. La diga subì molti danni durante i combattimenti tra peshmerga e Stato Islamico, e subirà dei grandi lavori di ristrutturazione e messa in sicurezza che verranno svolti dall’azienda italiana Trevi. Per garantire la sicurezza dei lavoratori italiani e aiutare i peshmerga a difendere la diga, sono stati inviati dal governo italiano 450 soldati italiani. Raineri ha incontrato alcuni dirigenti curdi della diga e ha raccontato che hanno molti dubbi sulla necessità dei lavori di ristrutturazione e della presenza dei soldati italiani. Dicono anche che gli allarmi diffusi negli Stati Uniti circa la possibilità che la diga ceda sono infondati, secondo i dati che hanno a disposizione, perché sono state fatte diverse cose per evitarlo.

Mohsen Hassan Yakoub è il vicedirettore della diga di Mosul. Prende penna e taccuino, si china sul cofano della macchina e spiega al Foglio perché la diga di Mosul è sempre presentata sui media, specialmente quelli americani, come una catastrofe in attesa di accadere presto. “Ci sono quattro strati di gesso sotto di noi. E tra questi quattro strati ci sono strati di altro materiale, vuoi argilla, vuoi pietra calcarea, e roccia sedimentaria, bauxite e dolomite. Se l’acqua del bacino qui sopra fa pressione di lato sugli strati di gesso, siccome sappiamo che il gesso è solubile, crea delle fessure e dei vuoti. A lungo andare questo produce un effetto ‘togliere il tappeto da sotto i piedi’ perché può dissolvere gli strati su cui tutto poggia e minaccia di far collassare l’infrastruttura, che in questo caso è la diga più grande dell’Iraq”. Il fatto è, dice il vicedirettore che lavora qui da trentacinque anni, che gli ingegneri sono al corrente di questo problema fin da prima della costruzione della chiusa e ci sono contromisure per allontanare il pericolo. Offre questa lectio improvvisata in piedi in mezzo a uno spiazzo accanto a uno dei due muri di cemento che contengono il canale della diga, sono così alti da rimpicciolire per contrasto tutto quello che è nei paraggi: strade d’accesso, cantiere, macchinari, operai e noi.

Più sopra ancora c’è la mantellata della diga, che corre da ovest verso est per tre chilometri. C’è un singolo soldato curdo di scorta che ha l’aria di non ricordare più come è fatta la guerra e che – nonostante sia di stanza a soltanto un chilometro da qui – non era mai entrato nel corpo della diga e in silenzio continua a scattarsi selfie. Nello spiazzo gli operai sono attorno a un paio di trivelle: “Ci sono milleduecentocinquanta sensori, e gli americani durante la guerra ne hanno collegato un paio di centinaia a internet, possiamo vedere cosa succede in diretta sul computer. I sensori ci avvertono dove si aprono i buchi. Noi li raggiungiamo con le trivelle e iniettiamo un mix di cemento con additivi, che rende stabile l’area che si stava indebolendo”. Un rattoppo continuo, “ventiquattr’ore al giorno, sette giorni alla settimana. Un cantiere permanente di quattrocento persone. E la diga così diventa sempre più solida ogni anno che passa”.

Continua a leggere sul sito del Foglio