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  • Martedì 9 febbraio 2016

Si può provare compassione per un combattente dell’ISIS?

La storia di un giornalista che ne ha conosciuto uno – responsabile di omicidi e decapitazioni – e ha messo in discussione il modo in cui li immaginiamo

di Sebastian Meyer - Washington Post

Un miliziano dell'ISIS in un video in cui minaccia di decapitare il cittadino croato Tomislav Salopek, nell'agosto 2015. Video successivi confermarono l'avvenuta decapitazione.
Un miliziano dell'ISIS in un video in cui minaccia di decapitare il cittadino croato Tomislav Salopek, nell'agosto 2015. Video successivi confermarono l'avvenuta decapitazione.

Lavorando come giornalista nel nord dell’Iraq, negli ultimi sei anni ho visto la guerra contro lo Stato Islamico da più vicino di quanto avrei voluto. Nell’estate del 2014 il mio migliore amico, un uomo a cui volevo bene e che avevo imparato a rispettare durante il mio periodo in Iraq, è stato fatto prigioniero dai miliziani. Eravamo più fratelli che amici: da allora non ho più avuto notizie di lui. La sera in cui è scomparso stavo facendo delle riprese a circa 280 chilometri da Sulaymaniyah. Ho guidato tutta la notte per raggiungere un gruppo di suoi amici e familiari per tentare di salvarlo. Mentre i miliziani spostavano i loro attacchi verso l’ovest dell’Iraq, abbiamo fatto di tutto per ritrovarlo, guidati dalla rabbia e dalla disperazione. Non posso dire altro su di lui per non metterlo in ulteriore pericolo.

Alcuni mesi dopo “Diji Terror”, un’unità antiterroristica curda che ha sede a Sulaymaniyah, accettò la mia richiesta di intervistare un combattente dello Stato Islamico che avevano catturato. Avevo finalmente una piccola possibilità di ottenere delle risposte sulle strategie dello Stato Islamico. Un’opportunità di catarsi.

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Il miliziano dello Stato Islamico intervistato da Meyer (Sebastian Meyer/The Washington Post)

Il miliziano dello Stato Islamico, Ali, era stato catturato durante un raid notturno, che era stato filmato dai soldati curdi. Le truppe di “Diji Terror” mi mostrarono le riprese in cui veniva ammanettato, bendato e caricato su un elicottero. Mi dissero che Ali aveva decapitato dei prigionieri: non riuscii a fare a meno di pensare al mio amico. Quando lo incontrai, Ali indossava una tuta arancione e dei sandali di plastica. Mentre stava ricurvo sulla sua sedia, una guardia accese una sigaretta sottile e gliela passò. Ali la prese con entrambe le mani – aveva le manette ai polsi – e aspirò profondamente (nei territori dello Stato Islamico, fumare è proibito). Era un’immagine molto lontana dalla foto di propaganda che avevo visto, in cui Ali era vestito di nero e stava con aria imponente dietro un soldato peshmerga curdo, che diceva di aver poi ucciso. Ali mi raccontò di essere nato nel 1995 e di essersi unito allo Stato Islamico nel 2008, quando aveva tredici anni. Venne addestrato per diventare un killer e due anni dopo gli fu assegnata la prima missione. Fu mandato con tre amici a uccidere quattro agenti di polizia iracheni a Mosul. Il gruppo rintracciò gli uomini e li uccise sparandogli dietro alla testa, per poi seppellirli sul posto. Ali mi ha detto di aver ucciso otto o nove uomini in battaglia, senza contare i cinque che aveva decapitato.

Gli chiesi di raccontarmi del soldato peshmerga a cui aveva tagliato la testa. Con voce bassa e arrendevole, mi disse di averlo spinto pancia a terra di fronte a lui. Aveva accoltellato l’uomo alla schiena e gli aveva tagliato la testa con una baionetta. Gli chiesi se aveva qualcosa da dire alla famiglia del peshmerga che aveva decapitato. Ali rimase in silenzio un secondo, poi fece una smorfia e iniziò a piangere.

Se tutto quello che mi aveva raccontato era vero, allora Ali è stato davvero un pericoloso terrorista, e il mondo è più sicuro con lui in prigione. Ma è anche stato un bambino soldato, un ragazzo vulnerabile costretto a diventare un terrorista. Ho intervistato diversi combattenti come Ali. Alcuni di loro avevano solo 14 anni quando lo Stato Islamico è arrivato nella loro città e li ha obbligati con le armi a unirsi a loro. Lo Stato Islamico è responsabile di atti di violenza ignobili, ma gli uomini che compiono questi crimini non sono caricature bidimensionali, come vengono ritratti. Sono esseri umani, e molti di loro sono stati indottrinati quando erano più suggestionabili e costretti con la forza a entrare nello Stato Islamico.

Qualche settimana dopo le interviste, ho visto una foto scattata dopo una battaglia tra i curdi e lo Stato Islamico vicino a Sinjar, in Iraq. In basso a sinistra c’era un miliziano dello Stato Islamico, con la testa fuori dall’inquadratura e il sangue che scorreva dalla spalla sinistra. Si chiamava Abdul Aziz Faraj Yusuf e aveva 16 anni. Ho visto molte foto di combattenti dello Stato Islamico morti, ma rileggendo l’età del ragazzo, provai qualcosa di diverso. Non c’era più un senso di soddisfazione per la vendetta. Era un ragazzo morto. Non ero più arrabbiato, ero distrutto.

© 2016 – Washington Post