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  • Mercoledì 18 novembre 2015

Il ladro di libri di Stephen King

Il racconto inedito scritto da Sandrone Dazieri per la Smemoranda 2016

Stephen King con un Kindle a New York, nel 2009. 
(Mario Tama/Getty Images)
Stephen King con un Kindle a New York, nel 2009. (Mario Tama/Getty Images)

Sta uscendo in questi giorni l’agenda Smemoranda 12 mesi per il 2016, che contiene al suo interno dodici racconti inediti di scrittori italiani. Gli autori dei racconti sono Gino e Michele, Guido Catalano, Sandrone Dazieri, Chiara Gamberale, Fabio Genovesi, Marco Missiroli, Raul Montanari, Michela Murgia, Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Marina Terragni, Andrea Vitali.

Questo è il racconto intitolato Il ladro, scritto da Sandrone Dazieri, scrittore e sceneggiatore, autore dei libri noir della serie del Gorilla e del romanzo Uccidi il padre. Il racconto, scritto in occasione del compleanno di Stephen King, che Dazieri considera come un suo mentore, ha per protagonista proprio King, in una strana storia di furti di romanzi.

***

Sua moglie si agitò. – Stephen. – Borbottò, per nove decimi già addormentata. – Vieni a letto, che è tardi.
Lui non si voltò neppure, ma depose uno straccio sulla piccola abat-jour per attenuare la luce. Un’ombra irregolare si proiettò sulla parete bombata del camper. – Tra poco arrivo. – Sussurrò. – Non preoccuparti.
Il respiro della donna tornò regolare dopo pochi minuti, e ne fu sollevato.
Tutta la sua energia era proiettata in quello che stava per fare e non sarebbe stato in grado di sostenere l’ennesima discussione. I bambini erano dai nonni, per fortuna. Quando i suoi scatti di nervi e il suo tasso alcolico erano aumentati, “casualmente” era arrivata una lettera dei suoceri, che esprimevano il vivo desiderio di passare qualche giorno con i nipotini “finché erano ancora abbastanza in gamba da stargli dietro”.
Di sicuro era stata sua moglie a dare loro l’imbeccata, e come darle torto? Muovendosi silenziosamente, si alzò dalla sedia scomoda e scricchiolante per prelevare l’ultima bottiglia di Bud’s dal frigo. L’aprì con i denti e ne bevve una lunga sorsata. Devo proprio farlo?, si chiese per la centesima volta. Non ci può essere un’altra soluzione?
Per la centesima volta si rispose di no e con la bottiglietta in mano aprì l’anta dell’armadio. La scatola da scarpe era ancora lì, sotto i vecchi maglioni dove l’aveva nascosta. Tornò a sedersi al tavolino, e ne tolse il coperchio. Dentro, avvolta da uno straccio intriso di olio, stava una vecchia rivoltella. L’aveva comprata per pochi dollari al banco dei pegni, in dubbio se quello che stava facendo fosse legale. Non che avesse importanza.
Ne saggiò il peso estraneo tra le mani arrossate, poi se la infilò goffamente nella cintura dei pantaloni. Nel farlo, urtò il tavolino, e uno dei due libri che vi stavano sopra scivolò per terra con un tonfo sordo. Lo raccolse e tornò a fissare quella copertina che negli ultimi mesi l’aveva ossessionato. Vi era disegnata una ragazza ricoperta di sangue, con il volto contratto in una smorfia di furore.
Era il suo romanzo, ma non l’aveva scritto lui.

L’idea gli era venuta alla lavanderia. Tutto si poteva dire di quel mestiere di merda tranne che non gli lasciasse il tempo di pensare. Vuotava le ceste di biancheria sporca nella macchina, svuotava la macchina dalla biancheria pulita e riempiva le ceste. Vuotava le ceste di biancheria bagnata nell’essiccatore. Vuotava l’essiccatore e spingeva le ceste ricolme di biancheria pulita verso il reparto stiratura. E pensava. Sudava nel vapore spietato, tendeva i muscoli doloranti, muoveva le mani screpolate e pensava.
Pensava ai debiti che gli si accumulavano, di quanti soldi avrebbe avuto bisogno per mantenere la figlia che stava arrivando, alle lettere di rifiuto degli editori che si accumulavano nel bauletto dove nascondeva i suoi fallimenti letterari, le bozze, gli appunti. E pensava a quello che avrebbe scritto, la notte, nel camper che faceva da casa alla sua famiglia.
L’idea lo aveva fulminato mentre si fumava una sigaretta, osservando la ragazza ritardata che sbrigava i lavori peggiori nel reparto piega, Rose. Era addetta ai lavori più semplici e pesanti, a caricare e scaricare ceste, senza sosta, vittima designata di un ambiente in cui non c’era tempo per i sentimenti umani. Chi la trattava meglio le dava gli ordini come si stesse rivolgendo a un mulo, ma Rose non si ribellava mai, qualsiasi insulto o angheria ricevesse. Rivolgeva a tutti il medesimo sorriso ebete. Quella volta, però, mentre se ne stava appoggiato a una parete, lasciando che il sudore gli colasse lungo il collo, aveva colto lo sguardo che Rose aveva lanciato alle spalle della caporeparto. Un concentrato di odio puro.
Colpito, Stephen si era trovato a fantasticare su cosa sarebbe successo se a Rose fosse stata donata la possibilità, per un attimo, di vendicarsi di tutti i torti subiti. Se, per qualche accidente, il suo odio si fosse incanalato in una forza distruttrice… Aveva avuto la visione della lavanderia trasformata in turbine di violenza. Le lenzuola che sbattevano come colpite dall’uragano, i corpi che vorticavano schiantandosi contro le pareti in una pioggia di sangue. Se solo avesse potuto trasferire nelle pagine quell’immagine, se solo fosse riuscito a trasmettere quella sensazione che aveva sentito vibrargli nel cervello…
Quella notte stessa ci aveva provato e si era trovato a buttare giù pagine su pagine. Aveva scartato subito la lavanderia come teatro dell’azione. Troppo dura, nessun lettore avrebbe mai potuto identificarsi. Meglio scegliere qualcosa che tutti avrebbero riconosciuto immediatamente. Uno dei tanti ambienti dove i deboli vengono schiacciati e derisi, dove il conformismo è un dio spietato che esige un tributo di vittime sacrificali. E il posto giusto l’aveva trovato lasciando il mangano e cominciando il suo incarico di insegnante di Lettere alla Hampton: la scuola. La sua vittima sarebbe stata un’adolescente, una studentessa goffa e bruttina, incapace di ottenere rispetto e amore da compagni e professori. Ma con qualcosa di diverso, nascosto dentro di lei. Un potere. Superumano.
Lentamente Stephen aveva cominciato a tracciare la personalità della ragazza, colpita dalla maledizione, angariata da una madre maniaca religiosa che vedeva in lei l’incarnazione del peccato. Avrebbe preparato lentamente lo scoppio di violenza, sovrapponendo i segni premonitori.
Aveva scritto per quasi un mese come non aveva mai fatto prima, usando tutto il tempo libero dalla correzione dei compiti e dai racconti che mandava alle riviste per soli adulti, pagati una miseria ma indispensabili per il magro bilancio famigliare. Scriveva velocissimo, quasi senza fermarsi a correggere e riscrivere. Quando si interrompeva, troppo stanco per proseguire, le parole continuavano a fluirgli nel cervello, e le ritrovava la sera dopo, quando si rimetteva all’opera.
Il risveglio dal sogno era stato brusco, quanto inatteso, a dir poco. Era stata sua moglie a indicargli la pagina del quotidiano, dove la recensione spiccava sotto un titolo a lettere cubitali. Eloise, lo sguardo di Satana, diceva.
Mentre leggeva, aveva sentito la testa girargli e una sensazione di irrealtà che non aveva mai provato prima. Poi era saltato sulla macchina e aveva guidato sino alla prima libreria aperta. Il romanzo era sistemato in posizione d’onore, su una piccola piramide di volumi che era crollata miseramente sotto gli occhi stupiti del commesso quando ne aveva afferrato uno. Aveva cominciato a leggere, seduto dietro il volante, e aveva letto con disperazione crescente fino a quando il sole era definitivamente tramontato e il buio aveva coperto le parole. Poi si era infilato nel primo bar, uscendone talmente ubriaco da aver rischiato la morte, mentre guidava fino casa.
Sua moglie era stata ad ascoltare le frasi smozzicate con le quali cercava di spiegarle, mentre la sua espressione si faceva via via sempre più preoccupata. E incredula. Era rimasta incredula anche quando lui le aveva mostrato i suoi appunti, i capitoli che aveva già scritto paragonandoli a quelli stampati. Poi, aveva cercato di calmarlo, parlandogli dolcemente.
– Non è possibile, Stephen. – Gli aveva detto – Non si può copiare un libro che non è ancora stato scritto. È solo una coincidenza.
– Coincidenza? – Le aveva urlato. – Quante possibilità pensi ci possano essere perché un altro scriva esattamente quello che io avevo in mente?
– Dammi un’altra spiegazione, allora – aveva detto la moglie.
– Non ce l’ho – era stato costretto ad ammettere lui.
La moglie aveva abbassato lo sguardo, ma non abbastanza in fretta. Stephen aveva capito che lei una spiegazione l’aveva e che solo per amore non la tirava fuori. Pensava che fosse stato lui a copiare, forse inconsciamente, il lavoro di un altro.
E in fondo, perché no?, aveva pensato lui il giorno dopo di fronte agli occhi degli studenti che lo fissavano stupiti nel vederlo barcollante e stravolto. Che cosa penserei io al posto suo? Che uno scrittore è riuscito a entrare nella testa di mio marito, o che mio marito sta andando fuori di testa? Non c’era neanche da chiederlo.
Nelle settimane seguenti Stephen si rassegnò all’idea che non avrebbe potuto avere giustizia, non in questo mondo, e un po’ alla volta il dolore e la rabbia si stemperarono nella serena consapevolezza che se quello che aveva pensato era buono, talmente buono da risuonare magicamente nella testa di un altro, forse poteva riprovarci.
E lo fece, nei mesi che vennero, buttando giù e levigando l’idea di una piccola città invasa dai vampiri vista attraverso gli occhi di uno scrittore di successo che vi tornava dopo molti anni. Ci aveva messo dentro i suoi ricordi di infanzia e persino la bravata di quando aveva scavalcato il cancello di una casa abbandonata per farsi bello con i compagni di scuola e vi aveva trovato il proprietario morto d’infarto.
Era alle ultime pagine quando al notiziario intravide il volto dello scrittore di Eloise: il Ladro, il Figlio di puttana. Mostrava tutto contento la copertina di un romanzo che stava per uscire in libreria con una tiratura da capogiro. Parlava di vampiri. Si intitolava I giorni di Salem: anche il nome del paesino era lo stesso.

Stephen guidò tutta la notte, con la pistola che gli premeva sulla schiena, resistendo alla tentazione di vuotare
la bottiglia di whisky che teneva sotto il sedile ma bevendo solo un sorso ogni tanto, quanto bastava per tenersi su
di giri. Il Ladro abitava nella contea Schenectady, nello stato di New York: l’indirizzo lo aveva ricavato da un servizio su Variety, dove il Ladro raccontava di aver venduto i diritti de I Giorni di Salem al cinema. Nell’articolo il giornalista si era dichiarato stupito che il Ladro parlasse così male l’inglese e lo scrivesse così bene. Perché il Ladro era un italiano e si era trasferito in America solo quattro anni prima. Stephen, però, non si stupiva. Non aveva bisogno di saper scrivere, quel bastardo di un Ladro, solo di copiare bene. Di leggergli nella testa e batterlo a macchina. Stephen voleva vederlo quello strumento, e sperava fosse grosso abbastanza da fare male quando glielo avrebbe ficcato su per il culo.
All’alba, Stephen parcheggiò l’auto al limitare della Pine Bush, e proseguì a piedi finché la villetta del Ladro non apparve davanti a lui, circondata da una siepe che la separava dalla strada. Stephen la scavalcò, poi raggiunse il retro, usando la finestra del bagno per entrare. Per qualche minuto si aggirò nella penombra, osservando l’arredamento, le fotografie appese al muro, i vestiti. Cercò qualche punto di contatto tra sé e il Ladro, una sorta di fratellanza artistica, ma quell’uomo era un estraneo completo, nato a migliaia di chilometri di distanza in una città che non aveva mai sentito nominare, Cremona. Sfilò la pistola dalla cintura, e per poco non gli cadde per quanto aveva le mani sudate; un sudore che puzzava di alcool e paura.
Spinse la porta della camera da letto e una lama di luce illuminò il Ladro, che russava nel letto con addosso solo gli slip. Sul pavimento accanto a lui copie dei suoi libri – i libri che gli aveva rubato – e dei giornali italiani: forse aveva nostalgia di casa. E c’era anche un bicchiere che Stephen non vide e che urtò con il piede facendolo rotolare rumorosamente sul parquet. Il Ladro si drizzò sul letto. – Chi c’è? – Disse. Si infilò rapidamente gli occhiali e fece una smorfia di terrore quando vide la pistola. Ma, stranamente, tornò calmo quando vide in faccia Stephen. – Sei tu – gli disse con un accento italiano così marcato da essere quasi incomprensibile. – Sapevo che saresti venuto. Non ti ho fatto un bel servizio, eh? – Disse tirandosi in piedi.
Stephen continuò a puntare la pistola. – Non ti ho detto di muoverti.
– Cosa vuoi fare, ammazzarmi? – Il Ladro si infilò un paio di jeans strizzando la ciccia. – Se lo fai, non saprai mai come ho fatto a fregarti Carrie. E Le Notti di Salem. Sì, so anche i titoli che avevi in mente.
– Allora ammetti di avermeli rubati? – Stephen era sbalordito, e stanco come non pensava di poter essere – Che erano miei?
Il Ladro si accese una sigaretta e tossì. – Ovvio. E ci avresti fatto un sacco di soldi. Da dove vengo io, tu sei uno degli scrittori più importanti del mondo. Hanno fatto dei bei film dalla tua roba. – Stephen ebbe un’intuizione bruciante, una di quelle che di notte lo tenevano sveglio mostrandogli gli sviluppi delle trame che componeva. – Non stai parlando dell’Italia, vero? Non è da lì che vieni.
– No, cioè sì. Ma non è l’Italia di qui.
– Un’altra dimensione? Un altro mondo? Stephen non credeva alle sue stesse parole. Ma se qualcuno poteva rubare un romanzo non ancora scritto…
– Perché non un altro tempo? – Disse il Ladro.

Proseguirono a parlare in cucina, davanti a due bicchieri che il Ladro riempiva con generosità e con un liquore decisamente migliore di quello che Stephen aveva portato con sé. – Il viaggio nel tempo è possibile – disse. – Io ne sono la prova. Vengo dal 1988, ma non chiedermi niente, ho già fatto abbastanza casino. Non si sta meglio che qui, comunque.
– Quindi nel 1988 si viaggerà nel tempo?
– Solo io. – Il Ladro gli fece un mezzo sorriso. – Non sono uno scienziato, prima che tu me lo chieda. Me la sono ritrovata tra le mani.
– La macchina del tempo? – A Stephen sembrava tutto un sogno. – E chi te l’ha data?
– Un tizio che ne sapeva quanto me. E che veniva dal 2030, o giù di lì. – Il Ladro sospirò. – Pensi di essere l’unico a cui sia capitato di vedersi fregare un libro, anzi TUTTI i libri che scriverà?
Stephen capì. – È successo anche a te.
– Avevo lavorato per tre anni su un romanzo, con l’editore che voleva mandarmi all’inferno e il mio agente che rompeva le palle sul fatto che ero in ritardo. Sarebbe stato un successo, lo sentivo… Solo che uno stronzo l’ha pubblicato prima di me ed è diventato schifosamente ricco, mentre io facevo la fame. L’avevo chiamato Il Nome del Peperone, e quello ci ha messo un fiore, invece… Come se fosse meglio…. Quando mi ha rubato anche Il Pentolone di Foucault sono andato da lui con una mannaia e lui mi ha fatto lo stesso discorso che faccio a te. L’avevano fregato e ha derubato uno scrittore che amava, di cui sapeva tutto, e che ero io. L’ultimo di una lunga fila di scrittori derubati. Chissà chi è stato il primo.
– E tu perché hai preso me?
– Perché ho sempre voluto scrivere horror e tu sei il migliore – Sorrise. – Consideralo un omaggio.
– Omaggio un cazzo.
Il Ladro si alzò e aprì un cassetto della credenza, estraendone un apparecchio che sembrava una radiolina a transistor, anche se aveva un piccolissimo schermo sul davanti e mancava della caratteristica griglia dell’altoparlante.
– E questa è la Macchina. Puoi usarla una volta sola, e solo all’indietro. Prima o poi si scaricherà, ma per adesso… – Scrollò le spalle. – Devi solo inserire l’anno, quando hai deciso.
Stephen non la toccò nemmeno. – Non posso farlo.
– Allora non farlo. Interrompi la catena. – Stephen balzò in piedi urlando. – Io voglio scrivere i MIEI LIBRI! I miei! Non copiare qualcuno distruggendogli la vita!
– I tuoi libri non ci sono più, Stephen – disse il Ladro. – E se ti ammazzo? Tornano miei? – Gridò ancora Stephen.
– Non più. E lo sai. Anche se mi limitassi ai primi due, direbbero che hai copiato il mio stile, o che ti ho ispirato. Non saresti più un precursore, un maestro, il Re, ma un piccolo epigono. È questo che vuoi? Essere uno dei tanti? – Il Ladro fece scivolare la Macchina verso di lui. – Oppure…
Non terminò la frase. Stephen fissò prima lui, poi la Macchina.

Difficile dire quale sia stata la scelta di Stephen. Il tempo che siamo abituati a immaginarci come una strada diritta verso il domani è in realtà un fiume pieno di anse e biforcazioni e a ogni cambiamento corrisponde un nuovo tempo, un nuovo mondo. Forse Stephen prese la Macchina e partì
in cerca di fortuna, forse ammazzò il Ladro e finì i suoi giorni in un manicomio. L’unica cosa che sappiamo è che una mattina del 1887, portando il suo manoscritto all’editore con la geniale invenzione di un ancor più geniale detective, lo stimato medico di origine scozzese Arthur Conan Doyle ebbe una sgradevole sorpresa.