Perché non riconosciamo le parole che non esistono

Quando leggiamo il cervello fatica a individuare i termini inventati, se si pronunciano o si scrivono in modo simile a quelli che esistono davvero

Harald Groven  Flickr
Harald Groven Flickr

Quando leggiamo – dimostrano da anni svariati studi scientifici – non riusciamo a distinguere le cosiddette “parole pseudomofone”, cioè parole inventate che hanno un suono simile alle parole reali: abbiamo bisogno di scandirle per accorgercene, proprio come i bambini che imparano a leggere. Per esempio, il nostro cervello riconoscerà subito che pgarla è una parola che non esiste, mentre fa più fatica a riconoscere come falsa otrologhia: eppure entrambe le parole non hanno nessun significato, per altri esempi seguite la pagina twitter il Parolaio:

In uno studio del 1971 condotto in inglese dagli psicologi Lewis e Rubenstein, vennero sottoposte ai volontari parole inventate senza senso, che dovevano pronunciare per decidere se fossero vere o no. I volontari riconoscevano facilmente come inventate le parole che non assomigliavano ad altre realmente esistenti, come blorb o reeko, mentre faticavano con parole inventate come “brane” (che si pronuncia simile alla parola inglese brain, che vuol dire cervello) o meen (simile a mean, che in italiano indica sia l’aggettivo malvagio sia medio, sia il sostantivo media che mezzo, sia il verbo significare) e dovevano scandirle più di una volta prima di riconoscerle come inesistenti. Questo perché una parte del nostro cervello riconosce prima il suono del significato e quindi non le scarta automaticamente. Gli scienziati chiamarono questo fenomeno l’effetto pseudomofono.

Uno studio successivo del 1982, condotto dal linguista R.C. Martin, adottò un approccio ortografico e non prettamente fonetico (cioè basato sulla produzione e la percezione dei suoni linguistici). Martin dimostrò che le persone non esitano solo davanti alle parole pseudomofone, ma anche e di più davanti a parole finte ma visivamente simili a quelle reali, anche se con suoni diversi: per esempio knile che in inglese è molto simile a knife, che vuol dire coltello.

Nel 1996 un gruppo di scienziati e linguisti americani pubblicò un lungo articolo sulla rivista scientifica Journal of Experimental Psychology, che cercava di affrontare in modo definitivo il fenomeno delle pseudoparole e della loro comprensione. Gli studiosi cambiarono la lingua di riferimento dall’inglese al tedesco, che ha un numero maggiore di modelli ortografici. Ugualmente in inglese il suono “f” può essere scritto in tre maniere diverse: il più delle volte come “f” (ad esempio “false”), altre volte “ph” (“philosophy”) e in rarissimi casi come “gh” (“enough”). I partecipanti allo studio, a cui veniva sempre chiesto di riconoscere le parole finte, riuscivano facilmente a riconoscere le parole pseudomofone con un modello ortografico dominante, con qualche esitazione riconoscevano quelle regolari e con molte difficoltà quelle con la grafia più rara.

Esistevano però notevole eccezioni: alcuni volontari individuavano facilmente come inventati i termini pseudomofoni perché l’ortografia non gli era familiare. Lo studio concluse che esistono più modi in cui le persone analizzano una parola. Quando le parole pseudomofone vengono “controllate” foneticamente, cioè pronunciandone il suono, è più probabile che la persona resti ingannata, rispetto a quando la prendono in considerazione da un punto di vista ortografico. Gli scienziati notarono anche che le persone che sono inclini a prendere decisioni velocemente subiscono l’effetto pseudomofono meno delle altre.