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  • Mercoledì 21 ottobre 2015

“Ciao”, il nuovo libro di Walter Veltroni

Racconta l’incontro impossibile con il padre, morto quando lui aveva solo un anno

È uscito per Rizzoli il nuovo romanzo di Walter Veltroni, Ciao. Nel libro Veltroni immagina di tornare a casa in una Roma deserta di Ferragosto e di trovare ad attenderlo sul pianerottolo il padre Vittorio, morto quando lui aveva un anno: i due trascorrono una sera in cui i ruoli fra il figlio sessantenne e il padre morto a meno di quarant’anni praticamente si invertono.

L’incontro dà a Veltroni la possibilità di confrontarsi con un padre che lui non ha mai conosciuto, se non attraverso i ricordi ritrovati a casa e testimonianze delle persone che l’avevano conosciuto e che avevano lavorato con lui.

Walter Veltroni, dopo essere stato vicepresidente del Consiglio, sindaco di Roma, segretario del Partito Democratico, ha abbandonato la politica attiva nel 2013. Ha scritto, fra gli altri, i libri Noi, La scoperta dell’alba, Il disco del mondo e L’isola e le rose, e ha diretto i film Quando c’era Berlinguer e I bambini sanno.

Di seguito, il capitolo in cui Veltroni torna a casa da Villa Borghese e trova il padre che lo aspetta.

***

Sulla panchina che vedo ora di fronte a me venni a sedermi all’alba di una mattina di settembre. Era l’ultimo anno dei Sessanta, il decennio magico. Ero teso, preoccupato. Quel giorno c’erano gli esami di riparazione, mi avevano rimandato in tre materie e avevo passato l’estate a studiare, a fare cioè quello che in quel tempo di assemblee, collettivi, cortei e riunioni non avevo saputo e voluto fare nei mesi precedenti. Mi sentivo un po’ umiliato, ma lo sarei stato ancora di più l’anno dopo, quando fui bocciato come un cretino, a dover dimostrare che non ero uno scansafatiche.
Mi angosciava l’idea di aver deluso e dato un pensiero a mia madre, che non lo meritava. Mi sembrava però assurdo che il mondo non capisse come l’organizzazione di un corteo contro la circolare di un ministro il cui nome si è disperso nel vento fosse palesemente più importante dell’ablativo e della morfologia del verbo regolare greco. Dovevo cambiare il mondo, roba di settimane, e mi si voleva far perdere tempo con polverose traduzioni che mi apparivano inutili. Non potevo certo oziare su Cicerone quando il mio compito storico era approfondire il pensiero di Rosa Luxemburg. Le sue teorizzazioni, in verità per me allora misteriose, mi affascinavano per il contenuto libertario e la critica al modello sovietico. Leggevo le sue opere in modo frenetico, cercando brani da citare nelle assemblee. Ascoltando i discorsi dei leader del movimento studentesco, quelli che lasciavano un’aura di mito al loro passaggio, avevo infatti capito che la citazione giusta, nel momento culminante di un discorso infuocato, poteva avere effetti micidiali. Schiantava gli oppositori e crepava il cuore delle ragazze.
Quella mattina di settembre del 1969 mi ero svegliato all’alba. Avevo inforcato la magnifica bicicletta che mi aveva regalato Enrico Ameri, un collega di papà. A ripensarci ora, mi commuove l’idea che il più famoso radiocronista sportivo italiano dell’epoca avesse chiesto a Vittorio Adorni, appena sceso dalla Bianchi con la quale aveva partecipato al Giro del Lazio, di donare la bici al figlio quattordicenne del suo capo, morto quasi quindici anni prima.
Ero orgoglioso di quella bici verdolina dal manubrio con l’adesivo bianco, non smettevo di compiacermi per la sua ineguagliabile bellezza e andavo fiero della sua storia gloriosa. Appoggiavo le terga dove si erano posate quelle di un campione del mondo, chi tra i miei amici poteva dire altrettanto? Ma un giorno, sceso in cortile, non la trovai più.
Il lato grigio della vita avevo imparato a conoscerlo anche prima, da bambino. È una storia che le mie figlie non vogliono sentire perché le rattrista. Tra i sei o sette anni avevo la mania delle macchinine. Ne possedevo a decine, tutti gli amici di famiglia sapevano che era il regalo giusto per farmi felice. Le mie preferite erano quelle scala 1:43 della Corgi Toys, o della Dinky, confezionate in scatole gialle, rettangolari, belle forse più dei modellini. In occasioni speciali mi avventuravo in un negozio dal nome favoloso, Il Paradiso dei bambini, per concedermi modelli molto più costosi ed esclusivi della aristocratica marca francese Solido, con il logo scritto in elegante corsivo. Trascorrevo pomeriggi interi a imbastire storie di famiglie e di città in cui le auto e i loro proprietari, per lo più soldatini dei nordisti e dei bersaglieri, intrecciavano complicatissime vicende di vita quotidiana. Le tenevo tutte in una enorme scatola circolare del maxipanettone Alemagna e non c’era giorno che non aprissi l’armadio per giocarci o semplicemente per rimirarle, le mie “macchinette”.
Arrivò un momento in cui non le trovai più. Capii da bisbigli e frasi ambigue che erano state portate vie da una delle donne di servizio che si erano avvicendate in casa nel periodo in cui la nostra Silvana si era con mio grande dolore trasferita in Trentino, dopo aver sposato un maresciallo sardo di stanza a Laives.
La sua sostituta era sparita da un giorno all’altro portando via null’altro che il mio patrimonio di macchinine scintillanti. Non soldi, non argento, solo le mie Corgi Toys.
Mamma capì il mio dolore e venne nella mia stanza con aria grave dicendomi che non era giusto, che cose così non si facevano, ma che mi doveva consolare il pensiero che probabilmente quella donna aveva preso le automobiline per suo figlio che forse non aveva giocattoli. La cosa singolare è che a me sembrò un discorso ragionevole e uscii da quella conversazione quasi sollevato. Forse molto di ciò che nella mia vita accadde in seguito cominciò con quel pietoso e socialmente corretto discorso materno.
La mattina dell’esame, quel giorno di settembre del 1969, il Parco dei Daini era come ora, deserto. Venni qui per caricarmi, per trovare motivazioni, come se tra questi sassi fosse nascosta la mia energia. Non l’avevo mai vista senza bambini, la Villa, e quella mattina, concentrandomi su una prova alla quale ero chiamato, mi resi conto di essere diventato grande.
Mi aveva immensamente colpito, qualche anno prima, la visione del film Blow Up. Il parco dove si svolgeva gran parte della storia, il Maryon di Charlton, era, per me, Villa Borghese. Quel verde, il colore del film, era lo stesso delle siepi del Giardino delle prospettive; e il mistero, notturno nella pellicola di Antonioni, era la straordinarietà di quel silenzio all’alba, di quegli spazi immensi deserti. Come se io, seduto lì con la bicicletta verdina di Adorni, fossi, in quel momento, l’ultimo uomo del mondo.
Anche ora ho la stessa sensazione. Rafforzata da un cielo che ha improvvisamente cambiato colore. Ormai anche Roma conosce la brutale irascibilità del tempo che è diventato rapsodico e imprevedibile, smodato e irrazionale. Grandi caldi d’inverno, repentini freddi d’estate e piogge violentissime, grandinate con chicchi come palline da ping pong. Tutto improvviso, tutto eccessivo.
Il cielo ha preso un colore che non ho mai visto, una combinazione di rosa e arancione. Le nuvole sono talmente basse che ti sembra di poterle toccare e sono così gonfie che ti fanno pensare a una donna incinta. Tutto è cambiato in un istante, che strano…
Per una ragione che non so spiegarmi controllo lo schermo del cellulare. Non avrei motivo di farlo, non devo chiamare nessuno e non aspetto telefonate, ma è un gesto che evidentemente mi rassicura. Scopro che l’area non è coperta, le colonnine del campo sono sconsolatamente trasparenti. Non sono collegato con la rete, se volessi mandare un tweet per commentare il fenomeno atmosferico non potrei farlo, né potrei sapere se altri stanno osservando il medesimo cielo da altre prospettive e se qualcuno, come sempre accade, trovi qualche buon motivo per lanciare insulti sanguinosi, persino nel commento della meteorologia. Quelle tacche della copertura del campo sono diventate ormai il nostro termometro al contrario. Se non ci sono, la febbre e le alterazioni comportamentali possono sfiorare il parossismo.
Ora invece mi piace scoprire di essere isolato dal mondo, nel mio paradiso, con un cielo sopra la testa che sembra una nuvola di zucchero filato alla fragola. È ferragosto, quanti ne vedrò ancora? Edoardo Galeano, magnifico scrittore uruguayano e maniaco del football, misurava il tempo restante della sua vita in campionati mondiali di calcio. Che, come è noto, si svolgono ogni quattro anni. Non bisogna farlo, mette paura.
Adesso cade la prima goccia, la pioggia è dello stesso colore delle nuvole, sembra uno scherzo. Domani i siti racconteranno con dovizia di particolari questo fenomeno e certamente abbonderanno le storie che sono di moda oggi, nel tempo in cui l’informazione è diventata un’estensione dello Strano ma vero della «Settimana Enigmistica». Certamente sarà molto cliccato il filmato di un gatto che si è buttato dal trentaquattresimo piano per inseguire una goccia di pioggia rosa e non si è fatto nulla, o quello di due ragazzi che, al Parco della Caffarella, facevano l’amore nel prato e sono diventati del colore di queste nuvole strane.
Alzo lo sguardo sorpreso e, mentre mi avvio all’uscita di via Raimondi, dal cielo sembra scendere un’alluvione di marshmallow. Non capisco se è la tonalità delle nuvole a dare questa assurda sfumatura alla pioggia o se davvero, come sembra, è essa stessa diventata rosa. Non ho l’ombrello, naturalmente. E mentre la pioggia si fa più forte, fitta fitta, osservo le gocce sulla mia camicia bianca e mi sembra che siano del colore che in questo momento illumina e tinteggia tutto intorno a me.
Adesso corro, e correndo non incontro nessuno. Immagino che l’ora del tramonto a ferragosto, unita a questa pioggia violenta e colorata, abbia tenuto a casa i pochi rimasti in città, attoniti nel vedere dalle finestre questo evento inedito e, fin qui, inspiegabile.
Apro il portone mentre il rosa sembra impossessarsi di Roma. Sono completamente bagnato e lascio dietro di me un rivolo di acqua colorata, come fossi un pagliaccio a cui hanno fatto una doccia per scherzo.
Salgo le scale, fino al primo piano. È al secondo che mio padre è morto, in un giorno di fine luglio del 1956, è al terzo, in un appartamento minuscolo, che andammo mia moglie e io nel 1982, ed è al primo che ci siamo trasferiti qualche tempo dopo la nascita della nostra seconda figlia.
Ora sono sul pianerottolo, davanti alla porta di casa. Ho tirato fuori dalla tasca le chiavi, sto cercando quella giusta.
«Ciao» sento dire dietro di me.
Strano, penso, non c’era nessuno. Eppure quella voce la conosco, mi assomiglia.
Mi giro e vedo un giovane uomo seduto sui gradini che portano al piano superiore. Ha in mano un cappello, tipo Borsalino, e tiene la testa rivolta all’ingiù. È vestito con un doppiopetto grigio, sulle maniche piccole macchioline rosa. Alza il viso e mi sorride. Ha la brillantina sui capelli, che sembrano comunque ribellarsi a quell’ordine imposto. Mi fissa con dolcezza.
«Ciao» ripete.
«Ciao, papà. Entra.»