Ai rifugiati è meglio dare soldi che cose

Lo sostiene l'Economist, elencando le difficoltà pratiche e le conseguenze umilianti della distribuzione di cibo e materiale sanitario

(ELVIS BARUKCIC/AFP/Getty Images)
(ELVIS BARUKCIC/AFP/Getty Images)

Nelle ultime settimane diverse organizzazioni locali e internazionali stanno dando assistenza alle migliaia di migranti che arrivano in Europa dal Medio Oriente e dall’Africa. In diversi tratti di confine e campi profughi sono presenti banchetti di Croce Rossa, Medici Senza Frontiere e piccole associazioni di volontari che distribuiscono cibo, materiale sanitario e vestiti. Spesso si formano code, litigi e confusione: c’è chi cerca di barare e riceve più di quanto ha bisogno, e chi rimane pieno di alcune cose e completamente privo di altre. In un recente articolo l’Economist ha proposto di cambiare questo approccio, invitando a considerarne uno meno “umiliante” e dispersivo: consegnare direttamente dei soldi ai rifugiati.

Nel 2014 solo il 6 per cento degli aiuti umanitari complessivi sono stati distribuiti sotto forma di denaro, a causa di alcune convinzioni piuttosto diffuse. Sendhil Mullainathan, dell’università di Harvard, ha spiegato che a causa della loro situazione di precarietà è possibile che i rifugiati prendano cattive decisioni sulla gestione dei propri soldi, e che preferiscano ottenere benefici immediati piuttosto che a lungo termine. Abhijit Banerjee e Esther Duflo del Massachusetts Institute of Technology (MIT) citano l’esempio degli indiani molto poveri, che a volte preferiscono acquistare un particolare tipo di tè dolce al posto di cibo più nutriente e “utile”, nella loro condizione. Scrive l’Economist che «sulla carta, dare ai rifugiati degli aiuti materiali assicura che abbiano a disposizione beni e servizi di cui hanno davvero bisogno».

Nei paragrafi iniziali dell’articolo, però, l’Economist elenca i problemi collegati alla distribuzione di beni materiali anziché di soldi. Oltre al problema della sproporzione dei beni consegnati – un recente report dell’ONU sostiene che i rifugiati siriani che si trovano in Iraq hanno scambiato due terzi delle porzioni di riso che hanno ricevuto con soldi in contanti – la stessa dinamica della “consegna” è piuttosto umiliante, ha spiegato l’Economist. «Ricevere pacchetti di aiuti dalle associazioni umanitarie di solito implica aspettare in fila a lungo davanti a tutti: cosa che per alcuni è fonte di vergogna». E poi c’è il problema degli enormi costi di trasporto di cibi e materiali sanitari in zone a volte difficili da raggiungere: l’amministrazione degli Stati Uniti ha stimato che le spese per il trasporto e per altre necessità compongono circa il 65 per cento della spesa totale per le razioni di cibo “di emergenza”.

L‘Economist sostiene al contrario che dare direttamente dei soldi ai rifugiati – magari con delle carte prepagate – è più pratico e in generale migliora sensibilmente la qualità della loro vita. Scrive l’Economist: «Con i soldi in tasca i rifugiati possono partecipare davvero alla vita della comunità e fare cose – tipo ripagare debiti, ospitare altre persone e contribuire a organizzare cerimonie e feste – che altrimenti non riuscirebbero a fare, coi soli aiuti “materiali”». Esistono già esempi positivi di questa pratica: in Libano fra il 2013 e il 2014 l’agenzia ONU per i rifugiati (UNHCR) ha distribuito carte prepagate a più di 87mila a cittadini siriani che si erano rifugiati in Libano. Un recente report dell’International Rescue Committee (IRC), un’importante ONG internazionale, ha spiegato che i risultati di questo programma sono stati positivi: l’economia libanese ha giovato dei “nuovi” soldi messi in circolo, il lavoro minorile è diminuito e non sono state trovate prove che il programma abbia incoraggiato pratiche di corruzione. In Giordania – un piccolo paese del Medio Oriente dove oggi un abitante su 13 è un rifugiato siriano – esistono già dei metodi per assicurarsi che l’assegno mensile per i rifugiati arrivi direttamente a loro: il governo da alcuni mesi ha installato dei dispositivi di riconoscimento dell’iride che consentono di ottenere i soldi degli aiuti solamente al rifugiato che ne ha diritto.

Secondo l’Economist la distribuzione di beni materiali può anche causare dei anni, oltre che dimostrarsi inefficiente. In uno studio pubblicato nel 2014 dall’università di San Francisco tre ricercatori hanno studiato le conseguenze di un recente programma di aiuti di TOMS, un’azienda statunitense che produce scarpe, sull’economia di alcuni paesi di El Salvador, un piccolo e povero paese dell’America centrale. TOMS ha promesso di dare ai bambini poveri un paio di scarpe per ogni paio acquistato dai suoi clienti “regolari”. Il guaio è stato che i bambini e le famiglie che hanno ricevuto le scarpe gratis da TOMS tendevano a non comprarne altre, danneggiando l’economia locale. Altri studi suggeriscono che una cosa simile avviene anche con la distribuzione di cibo, che danneggia i produttori e rivenditori locali.