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  • Martedì 2 giugno 2015

Non assumere una ragazza perché indossa il velo è discriminatorio

Almeno negli Stati Uniti, dove la Corte Suprema si è pronunciata a favore di una ragazza musulmana che non aveva ottenuto un posto da commessa da Abercrombie

(Chip Somodevilla/Getty Images)
(Chip Somodevilla/Getty Images)

Lunedì 1 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti si è pronunciata a favore di Samantha Elauf, la ragazza musulmana che nel 2008 non ottenne un posto da commessa in un negozio di Abercrombie Kids a Tulsa, in Oklahoma, perché si era presentata al colloquio di lavoro indossando uno hijab nero (il velo che copre i capelli e il collo della donna lasciando scoperto il viso, tipico della religione islamica).

La storia di Elauf
Nel 2008 Elauf aveva 17 anni e si presentò al colloquio di lavoro nella speranza di diventare una delle quasi modelle addette alle vendite di Abercrombie. L’assistant store manager di Abercrombie & Fitch espresse un giudizio positivo sulla ragazza, ma la sua candidatura fu scartata sia dall’intervistatore che da un supervisore perché Elauf indossava il velo nero per motivi religiosi, cosa che andava contro la Look Policy dell’azienda. Gli stessi impiegati e manager di Abercrombie ammisero in seguito di aver scartato la ragazza per questo motivo, benché fosse qualificata; e dissero di averlo fatto perché il regolamento aziendale prevede che i commessi della catena indossino abiti a loro scelta in stile preppy, o East Coast collegiate – quello della sottocultura statunitense delle scuole private di preparazione all’università, chiamate preparatory schools – e non cappelli e/o abiti completamente neri.

La vicenda giudiziaria
La Equal Employment Opportunity Commission (EEOC), la Commissione per le pari opportunità sul lavoro, si fece carico di rappresentare Elauf nella causa giudiziaria contro la sua esclusione: in primo grado la giuria del tribunale distrettuale ritenne fondate le richieste della ragazza, riconoscendole un risarcimento di 20mila dollari. La Corte d’appello federale di Denver, invece, revocò il risarcimento, sostenendo che Abercrombie & Fitch non potesse essere ritenuta responsabile di discriminazione religiosa perché Elauf non aveva mai chiesto esplicitamente deroghe alla politica aziendale che proibiva il velo. A febbraio di quest’anno il caso era arrivato alla Corte Suprema.

Il verdetto della Corte Suprema
Arrivato alla Corte Suprema, il caso di Samantha Elauf ha riaperto il dibattito negli Stati Uniti sulla discriminazione per motivi religiosi sul posto di lavoro. Il punto era capire se un’azienda abbia il diritto di sapere se un lavoratore o un candidato ha credenze religiose che prevedono richieste e necessità che si ripercuotono sull’azienda, e anche in che modo possa saperlo. Le aziende private, le organizzazioni statali e le amministrazioni locali hanno appoggiato Abercrombie perché temevano che, in caso della vittoria della ragazza, avrebbero dovuto affrontare un alto numero di denunce per discriminazione. La maggior parte delle associazioni religiose musulmane, cristiane ed ebraiche invece si è schierata dalla parte di Elauf, così come quelle per la difesa dei diritti gay.

Con un totale di 8 voti favorevoli su 9 ieri la Corte Suprema ha fatto riferimento al Civil Rights Act del 1964 – che vieta qualsiasi forma di discriminazione sulla base della razza, della religione, del sesso e dell’origine – e si è pronunciata a favore di Elauf. Secondo i giudici la ragazza «non era tenuta a far presente il proprio orientamenti religioso e a chiedere preventivamente all’azienda il permesso di poter indossare il velo per lavorare nel negozio». A Samantha Elauf è stato riconosciuto il diritto a essere risarcita – con quei 20mila dollari che la corte di Denver le aveva in seconda battuta revocato. I gruppi che rappresentano le minoranze religiose, come i musulmani, i sikh e gli ebrei hanno commentato molto positivamente la sentenza. «La decisione della Corte Suprema conferma il diritto a praticare liberamente la propria fede, senza dover rinunciare alla possibilità di realizzare i propri sogni» ha detto Gurjot Kaur, l’avvocato della coalizione nazionale dei sikh.