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  • Sabato 9 maggio 2015

La notte dell’Heysel

La storia tragica del 29 maggio 1985 vista da un bambino di otto anni davanti alla tv, nel nuovo libro di Mario Desiati

Un gruppo di soccorritori nei pressi della tribuna crollata dello stadio (DOMINIQUE FAGET/AFP/Getty Images)
Un gruppo di soccorritori nei pressi della tribuna crollata dello stadio (DOMINIQUE FAGET/AFP/Getty Images)

È uscito per Rizzoli il libro di Mario Desiati La notte dell’innocenza. Desiati racconta quello che successe la sera del 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles in occasione della finale di Coppa dei Campioni fra Juventus e Liverpool, quando il crollo di un muro sulle tribune e la calca provocata dalla pressione dei tifosi inglesi uccise 39 persone e fece oltre 600 feriti. Il libro è costruito alternando l’analisi dei documenti raccolti su quella sera, la ricostruzione della diretta televisiva e i ricordi personali di Desiati, allora bambino di 8 anni tifoso della Juventus.
In questo estratto il capitolo sugli scontri successivi al crollo e sui momenti che precedono l’inizio della partita.

***

Quando comincia la partita, alle 21.42, con quasi un’ora e mezzo di ritardo rispetto a quando era programmato il fischio d’inizio, per me è quasi ora di andare a letto, avevo già sforato i permessi extra che avevo trattato nei giorni precedenti. Vedendo le squadre entrare in campo vengo sollecitato da uno strano pensiero e guardo ancora per un poco la televisione. I fili d’erba di quel prato hanno visto guerra e sangue fino a pochi minuti fa, come possono adesso piegarsi sotto i tacchetti di ferro di ventidue calciatori? È uno dei dubbi con cui mi allontano dalla tragedia che scorre in televisione. L’erba è un pensiero che mi tormenta mentre raggiungo il letto.

Porto ancora le scarpe coi tacchetti e la maglietta che ho indossato agli allenamenti del pomeriggio. Il sudore asciugandosi ha formato una patina appiccicosa sulla mia pelle e mia madre mi ordina di fare la doccia.

Prima di lavarmi osservo sempre la striscia verde che lascia sul calzettone l’erba gramigna del campetto clandestino, un’erba che non c’entra con quelle che disegnano i campi da gioco. La accarezzo come qualcosa di caro. Ne sento le particelle invisibili che mi danno il potere di legarmi a chi sta giocando dentro uno stadio vero, avverto una connessione speciale con quegli dèi dell’Olimpo in pantaloncini e tacchetti.

Poi i dettagli di ciò che è accaduto si moltiplicano all’infinito nella mia testa. Sotto la doccia piango, e le lacrime si mischiano all’acqua che scende. Quando entro nel letto mi sento un po’ meno tremebondo e scioccato, ma non riesco ad addormentarmi subito e, prima che il sonno arrivi come un guanto a coprire la ferita della serata, nella mia mente rivedo le scene della mezz’ora concitatissima che ha preceduto il fischio d’inizio.

Una trentina di juventini finalmente riesce ad arrivare a poche decine di metri dalla curva X e Y, l’ennesima carica ha portato i suoi frutti, vogliono andare verso i tifosi del Liverpool che stanno esultando. I toni si fanno concitati e la polizia li respinge, ormai ha il controllo della situazione, lancia un paio di lacrimogeni per allontanarli. Alcuni capi ultras cercano di calmare gli animi, ma ce ne sono altri che ancora, come impazziti, corrono tra i fili d’erba di quel campo insanguinato. Caccia all’uomo sotto le tribune, la telecamera segue piccoli particolari.

Le immagini degli ultras italiani sono diverse dall’iconografia odierna: sono secchi, magri, scavati, non sembrano mastodontici, muscolosi o robusti, sono ancora i figli di un’Italia che, per certi versi, opulenta non lo è mai stata neanche nel cuore degli anni Ottanta.

Alle 21.30 circa compare quello striscione, «Reds Animals», in caratteri squadrati, gli stessi che accompagnano tutti gli striscioni del movimento ultras. Dopo il tafferuglio con la polizia, una quindicina di juventini guadagna quasi il terreno di gioco e lo stadio intero applaude la provocazione. È anche una liberazione, perché ormai la voce che a causare gli scontri siano stati i Reds è arrivata ovunque, non solo nelle case degli italiani attraverso i televisori, ma anche nello stadio attraverso il tam tam e il passaparola.

Dalle gradinate opposte i tifosi del Liverpool cercano di arrivare verso quelli della Juve per strappargli lo striscione. Tafferugli, poi veri scontri sulla pista d’atletica, gli juventini lanciano pietre e pietre ritornano a loro, la polizia fatica a contenere singoli italiani e inglesi che superano gli sbarramenti delle forze dell’ordine. Ne arriva uno, a pochi metri dalla curva italiana, è alto, baffuto, ha la maglia dei Reds, ma gli va malissimo, una pietra gli apre in due la testa… La sua immagine con la testa fasciata, la faccia insanguinata farà il giro del mondo mentre i poliziotti lo arrestano e gli fanno attraversare tutto il campo di gioco seminando ulteriore rabbia tra le due tifoserie.

Un altro gravissimo ferito, e un’altra immagine che fa il giro del mondo, è il povero fotografo scambiato per un tifoso del Liverpool, oppure semplicemente al posto sbagliato nel momento sbagliato. Mentre i poliziotti lo allontanano dalla curva juventina, una pietra, non si sa se destinata agli agenti o a lui, gli ha rotto la nuca. Il lanciatore è un ragazzo di Lecce che verrà arrestato e processato il giorno dopo per direttissima.

È in questo caos che arriva la voce di Phil Neal, il grande capitano del Liverpool: ha trentaquattro anni, è preoccupato perché non sa come stia sua moglie Jane, è preoccupato che possano verificarsi altri incidenti, ma, soprattutto, ha sentito il boato del muro che cadeva. È stato tra i primi a intuire che era accaduto qualcosa di grave e probabilmente tragico. Leclaire racconta un cammeo dello spogliatoio del Liverpool, il dissidio tra il giovanissimo Ronnie Whelan che vuole giocare subito e Neal che invece è scosso, è consapevole e dunque terrorizzato da quanto sta avvenendo e dal fatto che attorno a lui molti dei suoi compagni non ne capiscono la gravità, sono ancora bambini.

Dopo il messaggio di Neal, che viene letto e recepito male a causa della cattiva acustica dell’altoparlante, è il turno del capitano della Juventus.

Gaetano Scirea è un uomo riservato e dal volto sereno, è un grande libero, ruolo poetico e durissimo, l’ultimo uomo davanti al portiere e il primo uomo che fa partire l’azione. Forse il più grande libero della storia del calcio italiano assieme a Giacinto Facchetti e Franco Baresi.

Si ritirerà ventiquattro mesi dopo quella partita, come molti altri giocatori ha capito che il calcio è cambiato proprio in quel momento ed è un mondo a cui lui non appartiene. Morirà due anni e mezzo più tardi in un incidente stradale, in Polonia, dove era andato come osservatore juventino per assistere a un incontro della piccola squadra del Górnik contro cui la Juve avrebbe giocato un turno di Coppa Uefa.

Di Gaetano Scirea rimarranno per sempre le parole pronunciate nell’altoparlante che rimanda la sua voce rauca e metallica, rotta dall’emozione, al resto dello stadio: «La partita verrà giocata per consentire alla polizia di organizzare la protezione durante l’uscita dallo stadio, non rispondete a provocazioni, restate calmi, giochiamo per voi».

Appena finisce l’appello gli animi non si calmano affatto, decine di juventini caricano i poliziotti sotto la curva. È una carica violentissima e disperata, non assomiglia a quella inglese che ha distrutto il settore z, è più discontinua, assomiglia alle immagini che tutti conosciamo degli scontri in piazza negli anni di piombo: uomini imbavagliati, capelli lunghi, sciarpe in faccia, sbarre con cui sbriciolano le colonne dello stadio per procurarsi i pezzi da lanciare.

La polizia risponde, e questa volta in maniera durissima. Un cordone di tre file di poliziotti avanza verso la curva sud, e finalmente riesce a riportare una parvenza di ordine.

Pochi minuti e le squadre scenderanno in campo per la più assurda partita di sempre. I fili d’erba tornano a essere sovrastati dai loro padroni, le scarpe coi tacchetti percuotono il suolo verde, i chiodi bucano la terra su cui cresce l’erba, il fruscio del cuoio che rotola da una parte e dall’altra diventa, per novanta minuti, nuovamente legittimo proprietario di quel territorio profanato.

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