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“Funny girl”, il nuovo libro di Nick Hornby

È la storia di una ragazza che vince un concorso di bellezza e vuole fare l'attrice comica, qui c'è il primo capitolo

È appena uscito per Guanda Funny girl, il nuovo libro di Nick Hornby, scrittore inglese autore di molti romanzi di successo come Alta fedeltà, Febbre a 90’ e Un ragazzo. Il libro, ambientato negli anni Sessanta, ha come protagonista Sophie Straw, una ragazza di Blackpool che dopo aver vinto un concorso di bellezza decide di lasciare la città dove è cresciuta per trasferirsi a Londra. Lì diventerà la protagonista di una serie della BBC e realizzerà il suo sogno di diventare un’attrice comica di successo imitando il suo mito, Lucille Ball, protagonista della sitcom americana I love Lucy. La traduzione dall’edizione originale è stata curata da Silvia Piraccini.

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Non desiderava diventare una Miss, ma destino volle che stesse per succedere.

Tra la sfilata e l’annuncio ci fu qualche minuto di inerzia, così amici e famigliari si raccolsero attorno alle ragazze per far loro i complimenti e incrociare le dita. I gruppetti che si formarono ricordavano a Barbara le rotelle di liquirizia Catherine, quelle col cuore colorato: in centro una ragazza in costume da bagno rosa o azzurro caramella e tutt’intorno un vortice di impermeabili neri o marrone scuro. Era una giornata fredda e piovosa di luglio, ai Bagni South Shore, e le concorrenti avevano le braccia e le gambe arrossate e la pelle d’oca. Sembravano tacchini appesi in una vetrina di macelleria. Solo a Blackpool, pensò Barbara, puoi vincere a un concorso di bellezza conciata così. Barbara non aveva invitato amici e suo padre non voleva saperne di mettersi vicino a lei, così era bloccata lì da sola. Lui se ne stava su una sedia a sdraio, a far finta di leggere il Daily Express. Insieme avrebbero formato una rotella Catherine malconcia e sbocconcellata, ma le sarebbe piaciuto lo stesso avere la sua compagnia. Alla fine fu lei ad andare da lui. Allontanarsi dalle altre ragazze la fece sentire mezzo nuda e a disagio, piuttosto che glam e posata, e passando davanti agli spettatori fu costretta a beccarsi le loro espressioni di ammirazione. Quando arrivò da suo padre, fu probabilmente più aggressiva di quanto avrebbe voluto.

«Che cosa fai, papà?» sibilò.
Le persone sedute accanto a lui, annoiate, quasi tutti villeggianti, di colpo si irrigidirono di eccitazione. Una delle ragazze! Lì, davanti a loro! A sgridare suo padre!
«Oh, ciao, tesoro.»
«Perché non sei venuto da me?»
Lui la guardò come se gli avesse chiesto chi era il sindaco di Timbuctù.
«Non hai visto quello che facevano gli altri?»
«Sì. Ma non mi sembrava la cosa giusta da fare. Almeno per me.»
«E in che cosa saresti tanto diverso dagli altri?»
«Un uomo solo, che corre… come un forsennato in mezzo a un mucchio di belle ragazze poco vestite. Mi avrebbero rinchiuso.»
George Parker era un ciccione di quarantasette anni, vecchio prima di averne il diritto. Era solo da più di dieci anni, da quando la madre di Barbara lo aveva lasciato per il proprio superiore dell’ufficio delle imposte, e Barbara capiva che, se si fosse avvicinato alle altre ragazze, in lui si sarebbe acuita la consapevolezza di quella situazione.
«Be’, mica dovevi per forza correre come un forsennato, no?» disse Barbara. «Non potevi startene lì e basta? A parlare con tua figlia.»
«Vincerai tu, vero?» chiese lui.
Lei cercò di non arrossire, ma arrossì. I villeggianti a tiro d’orecchio ormai non fingevano neanche più di leggere il giornale o sferruzzare. La guardavano istupiditi.
«Mah, non so. Direi di no» rispose.
La verità era che lo sapeva. Il sindaco si era avvicinato, le aveva sussurrato un «brava» all’orecchio e le aveva dato una pacchetta discreta sul sedere.
«Ma dai. Sei infinitamente più carina delle altre. Non c’è confronto.»

Chissà perché, considerato oltretutto che era un concorso di bellezza, la sua superiore bellezza pareva irritarlo. Non gli era mai piaciuto che lei si mettesse in mostra, neanche quando faceva ridere amici e parenti con le sue gag in cui recitava la parte dell’imbranata o della svagata o dell’ottusa. Quel giorno, però, quando il punto era proprio mettersi in mostra, sperava di poter essere perdonata; invece niente. Se proprio dovevi partecipare a un concorso di bellezza, sembrava dire suo padre, potevi almeno avere la buona creanza di essere più brutta delle altre.
Lei, per non confondere il pubblico, finse di cogliere nelle sue parole l’orgoglio paterno.
«Che meraviglia avere un papà cieco» disse agli istupiditi. «Tutti dovrebbero avere un papà così.»
Non fu il massimo, come battuta, ma l’aveva pronunciata senza un accenno di sorriso e si guadagnò una risata più fragorosa del dovuto. A volte funzionava la sorpresa e altre volte la gente rideva perché ci si aspettava che ridesse. Lei capiva entrambe le cose, pensò, ma forse era un po’ poco chiaro per chi non prendeva sul serio il ridere.
«Io non sono cieco» disse George, categorico. «Guardate.»
Girò la testa e spalancò gli occhi verso chiunque mostrasse un po’ di interesse.
«Papà, devi smetterla» disse Barbara. «Così spaventi la gente: un cieco che strabuzza gli occhi.»
«Signora, lei ha…» Suo padre indicò maleducatamente una signora in impermeabile verde. «Lei ha addosso un impermeabile verde.»
L’anziana signora sulla sedia a sdraio accanto cominciò ad applaudire, incerta, come se George fosse guarito in quel preciso istante da una disgrazia durata tutta la vita, o stesse facendo chissà quale ingegnoso trucco di magia.
«Come farei a saperlo, se fossi cieco?»
Barbara capì che il padre cominciava a divertirsi. Era rarissimo che si lasciasse convincere a fare da spalla e avrebbe potuto continuare all’infinito a descrivere quel che vedeva, se il sindaco non fosse salito sul palco e non avesse preso in mano il microfono schiarendosi la voce.

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