La storia di Flamur Djala, a Genova

Marco Imarisio racconta sul Corriere la storia di un genovese la cui famiglia morì nell'alluvione del 2011, e che oggi aiuta i soccorritori per disastri simili a quelli di allora

In seguito alle forti piogge delle ore scorse a Genova, che hanno causato numerosi danni e la morte di una persona, Marco Imarisio ha raccontato sul Corriere di oggi la storia di Flamur Djala, cittadino genovese che perse moglie e due figlie nell’alluvione del 2011, provocata da fenomeni per molti versi simili a quelli che si sono verificati negli ultimi giorni. “La verità è che potremmo prendere gli articoli pubblicati allora e rimetterli sul giornale di oggi”, scrive Imarisio, utilizzando la storia di Djala per descrivere il tipo di danni causati in città dalle frequenti esondazioni del torrente Bisagno, che attraversa Genova.

Per la morte dei suoi familiari nell’alluvione del novembre 2011, Djala – che abita ancora a Genova – non ha ricevuto alcun risarcimento, perché non sono state riscontrate responsabilità del Comune (ne ha ricevuto uno di 5 mila e 500 euro solo per altri danni materiali subiti a un magazzino e a tre furgoni).

«Con la presente e in merito alla richiesta di risarcimento avanzata per conto dei parenti delle defunte Djala Gianissa, Gioia e Shpresa connesse al noto evento alluvionale siamo a comunicarle che non riteniamo ravvisabile alcuna responsabilità del Comune per i fatti lamentati e pertanto, seppur spiacenti, non possiamo accogliere l’istanza presentata in nome delle sopra specificate signore Djala».

Flamur estrae il foglio piegato in quattro dalla tasca dei jeans. La lettera della compagnia di assicurazioni fa riferimento al «sinistro avvenuto in data 4 novembre 2011». Il suo sguardo contiene una rabbia muta che da tempo ormai è sfumata nella rassegnazione. Quella mattina, quando uscì di casa, era ancora il signor Djala. Era un uomo quasi felice, come può esserlo un uomo che ha una famiglia. Fu suo fratello Juri a chiamare. Aveva visto tutto. Le aveva fatte scendere dal Doblò, le aveva salutate. Shpresa, la signora Djala. Gioia che era appena uscita da scuola. Janissa che non aveva ancora compiuto il suo primo compleanno. Le sue figlie. La sua vita. Erano state travolte dall’onda di un torrentello che si chiama Fereggiano, scaraventate nel sottoscala pieno d’acqua di una elegante palazzina, dove avevano trovato una morte orribile insieme ad altre due persone, anche loro mamme che stavano tentando di rientrare a casa.

La verità è che potremmo prendere gli articoli pubblicati allora e rimetterli sul giornale di oggi. Nel sottoscala della palazzina di via Fereggiano 2 la pompa elettrica sta cercando di svuotare le cantine. L’acqua si è fermata a 70 centimetri, ma solo perché il portone era chiuso. Piazza Verdi, l’immagine che si presenta agli occhi dei passeggeri appena usciti dalla stazione di Brignole, è un pantano che impedisce persino di distinguere il verde dei giardinetti. Il salotto di via XX settembre è un deposito a cielo aperto di oggetti abbandonati e fradici, gettati dai negozi, indumenti per bambino, accessori per computer, arredamento da ufficio, tutto marcio.

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