C’è un farmaco per curare ebola?

A due operatori sanitari infettati in Africa è stato somministrato un farmaco sperimentale mai provato su esseri umani: sembra che funzioni, anche se ci sono cautele e critiche

La missionaria statunitense Nancy Writebol, affetta dal virus ebola, è partita nelle prime ore di martedì 5 agosto dall’aeroporto di Monrovia, la capitale della Liberia nell’Africa occidentale, per essere ricoverata negli Stati Uniti presso l’Emory University Hospital di Atlanta, Georgia, ed essere sottoposta alle stesse terapie somministrate a Kent Brantly, il medico statunitense ugualmente affetto dal virus e ricoverato nei giorni scorsi dopo il suo rientro negli Stati Uniti. Writebol e Brantly lavoravano in una struttura sanitaria in Liberia dove sono assistite le persone che hanno contratto l’ebola e sono i primi due cittadini statunitensi a essere stati infettati dal virus. La loro vicenda clinica è osservata con grande interesse perché entrambi sono stati trattati con un nuovo farmaco che ha iniziato a dare risultati incoraggianti, dicono i media statunitensi.

Ebola virus
Il virus ebola fu identificato per la prima volta nel 1976 nella Repubblica Democratica del Congo. Il virus si diffonde attraverso il contatto con il sangue e gli altri fluidi corporei: finora non ha portato a epidemie su grande scala proprio perché causa, di solito in breve tempo, la morte dell’organismo che ha infettato, riducendo i tempi per il contagio. Ebola causa febbre, vomito, disturbi intestinali e nei casi più gravi emorragie interne. Il suo tasso di mortalità è molto alto e oscilla tra il 50 e l’89 per cento, a seconda del ceppo virale e della salute dell’organismo che prova a infettare. Il tipo che si è diffuso in questi mesi nell’Africa occidentale è lo “Zaïre ebolavirus” (ZEBOV), e ha il più alto tasso di mortalità.

1604 casi, 888 morti
Diverse decine di volte negli ultimi quarant’anni si sono verificate epidemie di ebola in Africa, e ogni volta queste epidemie sono state messe sotto controllo grazie alla prevenzione e alla quarantena delle persone infette e di tutte quelle entrate in contatto con loro. Questa epidemia però è diversa e più preoccupante di quelle passate, per molte ragioni.

Secondo gli ultimi dati forniti dalle organizzazioni sanitarie africane e internazionali, al 4 agosto i casi di ebola riscontrati sono stati 1604 e 888 delle persone contagiate sono morte. Il numero più alto di pazienti morti è in Guinea (358), Liberia (255) e Sierra Leone (273). Sono stati riscontrati anche due casi in Nigeria con un morto, un’altra persona è morta in Marocco (era di origini liberiane e le cause non sono ancora del tutto chiare): con i medici Writebol e Brantly, alla lista si sono aggiunti gli Stati Uniti.

La storia di Writebol e Brantly
Stando alla ricostruzione molto dettagliata di CNN, Brantly si è accorto di avere contratto il virus ebola il 22 luglio scorso, quando si svegliò con la chiara sensazione di avere la febbre. Si mise da subito in autoisolamento e tre giorni dopo fece altrettanto Writebol. Entrambi fecero gli esami del sangue ottenendo la conferma di avere contratto l’ebola. I sintomi iniziarono a peggiorare, con attacchi frequenti di vomito e di diarrea. Le cause del loro contagio non sono ancora del tutto chiare ma si ipotizza che il virus sia stato trasmesso da un altro lavoratore del centro, che aveva contratto la malattia.

Dopo avere comunicato le loro condizioni, le autorità sanitarie degli Stati Uniti hanno fatto arrivare in Liberia alcune dosi di un nuovo farmaco sperimentale che si chiama ZMapp, sviluppato dalla società Mapp Biopharmaceutical di San Diego. Il medicinale è un anticorpo monoclonale, semplificando molto: alcune cavie di laboratorio vengono infettate con parti del codice genetico del virus, in modo da attivare una risposta immunitaria per fermare il virus; gli anticorpi che vengono prodotti dalle cavie sono poi lavorati in laboratorio per ottenere un farmaco che impedisca al virus di superare le difese delle cellule sulle loro membrane e non possa quindi raggiungere il loro interno per infettarle e moltiplicarsi.

A Brantly e Writebol è stato spiegato che ZMapp non era stato mai provato prima sugli esseri umani, ma che aveva comunque funzionato in alcuni esperimenti sulle scimmie. Era stato somministrato a quattro esemplari entro 24 ore dalla loro infezione con l’ebola, consentendo a tutti e quattro di sopravvivere. In un altro test il farmaco era stato somministrato a 48 ore dall’infezione: due scimmie su quattro sopravvissero. Una quinta scimmia usata per i test di controllo, e quindi non trattata con il farmaco, era invece morta dopo cinque giorni dall’infezione.

Le dosi di ZMapp sono arrivate congelate la scorsa settimana nell’ospedale in Liberia dove erano ricoverati Brantly e Writebol. Al personale medico è stato detto di lasciare che si scongelassero da sole e di somministrarle poi ai due pazienti. CNN racconta che Brantly ha chiesto che la prima dose pronta all’uso fosse data a Writebol, motivando la sua decisione col fatto di essere più giovane di lei seppure malato da qualche giorno di più. Ma le condizioni di Brantly sono peggiorate rapidamente: non riusciva più a respirare bene ed era molto indebolito. Si è quindi deciso di somministrare a lui la prima dose e a meno di un’ora dall’infusione le sue condizioni sono sensibilmente migliorate, hanno riferito diverse fonti a CNN. Il mattino seguente Brantly è riuscito ad alzarsi dal letto e farsi autonomamente una doccia prima di salire sull’aereo per tornare d’urgenza negli Stati Uniti.

Dopo la prima infusione, invece, Writebol non ha dato particolari segni di miglioramento. Domenica scorsa le è stata data una seconda dose del farmaco che ha permesso di rendere più stabili le sue condizioni mediche e organizzare il suo trasporto verso gli Stati Uniti. Nei test sugli animali, il farmaco non era mai stato somministrato così tanti giorni dopo l’infezione.

Critiche
La scelta di somministrare un farmaco non ancora del tutto sperimentato e ben lontano dalla sua approvazione per l’uso sull’uomo ha suscitato molte perplessità, e non solo negli Stati Uniti. Il portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ricordato che le autorità sanitarie “non possono iniziare a usare farmaci non testati nel mezzo di una epidemia”. Ci sono di mezzo implicazioni etiche e di pratica sanitaria molto importanti, senza contare il rischio di creare false speranze nei pazienti e disparità di trattamento difficili da giustificare.