Einaudi ha pubblicato alla fine del 2013 un affascinante libro dedicato alla storia di Odessa, la città dell’Ucraina tornata protagonista delle vicende mondiali con la secessione della Crimea e gli scontri tra filo-russi e filo-ucraini nel marzo e nell’aprile del 2014. L’autore del libro (che si chiama semplicemente Odessa ed è uscito negli Stati Uniti nel 2011) è l’esperto di geopolitica e di Europa Orientale Charles King, che insegna alla Georgetown University.
Quando, alla fine dell’estate del 1867, Mark Twain visitò Odessa, ebbe subito l’impressione di essere a casa.
Aveva fatto scalo nel celebre porto russo durante quella che si può definire la prima crociera di piacere intorno al mondo, un viaggio nel Medio Oriente, che in seguito raccontò nel suo libro Gli innocenti all’estero. Dopo un giro di ventiquattr’ore intorno al Mar Nero sul battello a vapore americano Quaker City, Mark Twain scese a riva per visitare la cascata di gradini di pietra di Odessa – una delle scalinate piú famose al mondo – che, dal bacino portuale, conduce alla città alta. Una volta in cima, come ogni altro visitatore intento ad ammirare il panorama del porto, incappò nella piccola statua del duca di Richelieu, uno dei primi monumenti della città, che sembrava tendergli la mano accennando a un saluto. Mark Twain si diresse verso le colline e contemplò i silos di grano e il molo in lontananza. Dietro di lui, sorgeva il centro della città, immerso nell’incessante ronzio delle mille attività di scambio, commercio e navigazione.
Ampie strade ben tenute si incrociavano ad angolo retto. Casette basse di due o tre piani costeggiavano i viali. Facciate disadorne intonacate di giallo e azzurro riflettevano la luce del sole che, dalle acque immobili del Mar Nero, si diffondeva verso la riva. I rami delle acacie si protendevano sopra i marciapiedi brulicanti di gente intenta a godersi l’aria estiva, mentre nuvoloni di polvere si sollevavano al passaggio delle carrozze. «Guardatevi intorno, in alto o in basso, da una parte o dall’altra, – scrisse Twain, – vedrete solo una copia dell’America!».
Era un modo strano di vedere le cose. Mark Twain si trovava in una città fondata da un mercenario napoletano, battezzata da un’imperatrice, governata dal marito segreto di lei, costruita da due nobili francesi in esilio, modernizzata da un conte educato a Cambridge e celebrata dall’amante russo della moglie di quest’ultimo. Era una delle piú grandi città russe e il porto commerciale piú importante dell’Impero, anche se si trovava piú vicino a Vienna e ad Atene che a Mosca e a San Pietroburgo. Almeno per un quarto, la popolazione era costituita da ebrei.
Non molto tempo dopo il viaggio di Mark Twain, la città fu testimone di uno dei piú terribili episodi di violenza antisemita della storia della Russia. Gli ebrei furono massacrati per strada, in continue esplosioni di odio e di terrore incontrollati. In seguito, in un capitolo dimenticato dell’Olocausto, la comunità ebraica di Odessa (che a quell’epoca costituiva un terzo della popolazione) fu annientata dal piú radicale programma di distruzione bellica perpetrato da un paese che non era la Germania nazista, e cioè la Romania, alleata del Terzo Reich. Ciò che Mark Twain aveva percepito nelle strade e nei cortili di Odessa era la straordinaria capacità di unificare nazionalità diverse e di ricreare in tal senso la propria identità, generazione dopo generazione, proprio come succedeva nella sua patria americana. Quello che invece non era riuscito a vedere era la tendenza della città a immergersi con agghiacciante regolarità nel precipizio dell’autodistruzione.
All’epoca della sua visita, Odessa stava ancora cercando di sviluppare la sua peculiare fisionomia, che i sostenitori caldeggiavano e che invece i detrattori svilivano: un gusto per l’arguto e per l’assurdo, una patina di cultura russa applicata alle tradizioni yiddish, greca e italiana, un’economia caratterizzata da continui alti e bassi, una passione per la figura del dandy negli uomini e per la fanciulla spregiudicata nelle donne, uno stile nella musica e nella scrittura che associava l’abbandono di tipo libertino alla sperimentazione ben controllata e un modo di abbordare la politica che oscillava con audacia dalle posizioni piú
Molti di questi valori e di queste abitudini finirono per essere assorbiti dai nuovi locali che fiorivano un po’ ovunque, dai club di jazz di Leningrado ai saloni per banchetti dei borschtbelt delle montagne Catskillso di Brighton Beach. Rispetto ai quattro stati che l’avevano governata – l’Impero russo, l’Unione Sovietica, la Romania (come potenza occupante) e ora l’Ucraina – Odessa si era distinta per il suo carattere unico di città cosmopolita e multicolore, uno sfaccettato microcosmo arroccato tra il mare e la steppa e tuttavia minacciato dalla sua stessa policroma personalità. «Odessa non possedeva una sua tradizione, ma non aveva timore di sperimentare nuove forme di vita e nuove attività», rammenta Vladimir Jabotinskij, attivista sionista nativo della città. «Questa condizione ci ha permesso di sviluppare piú temperamento e meno passione, piú cinismo forse, ma meno amarezza».
A partire dalla sua fondazione, nel 1794, fino a oggi, Odessa ha lottato per sopravvivere tra i due opposti poli del successo e dell’autodistruzione. Come molte altre vivaci città portuali e come molti tessuti urbani multiculturali, essa ha sempre liberato i suoi demoni piú vitali, quegli spiritelli che incarnano le muse palpitanti della società metropolitana e i creatori instancabili dell’arte e della letteratura. Spesso, tuttavia, ha lasciato emergere anche i lati piú oscuri, quelli che stanno in agguato nei vicoli e bisbigliano parole di odio religioso, invidia di classe e vendetta etnica. Quando tutto andava per il meglio, Odessa era in grado di formare artisti e intellettuali il cui talento seppe illuminare il mondo. Quando invece tutto crollava, il nome della città divenne sinonimo di fanatismo, antisemitismo e bieco nazionalismo.
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I visitatori non arrivano a Odessa nel vero senso della parola, ci capitano quasi di sorpresa. Dal lato terra, la città si staglia all’improvviso sull’immensa steppa pontica, un’antica prateria ora disseminata di fattorie ucraine e di detriti dell’agricoltura industriale sovietica. Finché non ci si entra direttamente, la città è nascosta da un lieve incresparsi nel paesaggio, costituito da alvei di torrenti asciutti e da gole che finiscono in mare. «Qui sono le steppe, e un passo piú oltre è la città», scriveva un viaggiatore tedesco piú di un secolo fa. «Si crederebbe che essa giaccia interamente segregata dal suo circondario, né abbia alcuna influenza su ciò che le è attorno».
Dal mare invece Odessa sorge in cima a una catena di basse scogliere e il suo centro appare visibile soltanto quando la nave doppia il promontorio che nasconde la baia. La periferia è disseminata da blocchi di alti caseggiati, ma non c’è traccia della città vecchia, per lo meno finché la nave non dirige la prua verso il piccolo faro sul molo. «Una volta di piú ecco apparire l’Europa», cosí disse un visitatore francese nel 1840, quando vide comparire le sagome dei palazzi che si stagliavano contro il cielo. Si ritrova lo stesso sentimento in tutte le descrizioni della città, che siano di osservatori stranieri o locali. I tetti bassi e gli alberi piegati dal vento preannunciavano una città di sogno, che sembrava sorgere dal nulla, uno strano lampeggiare sull’orizzonte vuoto formato da steppa, mare e cielo.
Il modo migliore per giungere a Odessa è via mare, come fecero i primi visitatori che hanno lasciato traccia del loro passaggio sul Mar Nero, gli antichi greci. La costa appare alla vista quasi di nascosto, con un basso crinale di scogliere di calcare grigiastro che, nella piena luce del giorno, assumono in certi punti tenui sfumature arancioni e perfino rosa. Sicuramente fu un panorama mozzafiato per i navigatori che provenivano dall’Egeo e che, per giorni, avevano scrutato un orizzonte piatto in cui si susseguivano pianure ondeggianti e flutti increspati, indistinguibili le une dagli altri. Ancora oggi è un paesaggio straordinario. Dal mare aperto blu cupo, si apre l’ampia baia azzurrina, circondata da promontori frastagliati e scoscesi che si innalzano sopra il litorale per piú di una trentina di metri.
In alcuni punti, la costa del Mar Nero si muta in erti picchi alpini ricoperti di boschi che sembrano cadere verticalmente sul mare. In altri tratti invece si trasforma all’improvviso in sterminate scogliere di calcare, dove le onde nerastre lambiscono fragorosamente le muraglie di pietra grigioverdi. Intorno a Odessa, invece, sul lato a nord-ovest, il mare non bagna la terra, ma la completa. Il litorale piatto si infila sinuosamente nei bassi fondali salmastri. La distesa marina, di tanto in tanto soffocata dalle alghe, rappresenta l’ideale continuazione della steppa: un tempo era una prateria sconfinata la cui vegetazione era costituita esclusivamente dalla stipa ucrainica e dalla festuca, oggi si presenta allo sguardo con ordinate strisce di terra arate e coltivate, un collage di pezze brune e nere.
Nell’antichità le scogliere della moderna Odessa forse sono state oggetto di ammirazione, ma nessuno ne ha lasciato traccia scritta. Sicuramente la sua immensa baia era nota agli antichi, ma nessuno dei documenti di cui disponiamo fa menzione di insediamenti a lungo termine su questo lembo di terra. Altre città moderne sul Mar Nero e nei dintorni – il sudicio porto di Costanza in Romania, la leggendaria Sebastopoli, oppure il gioiello del Mar Nero, Istanbul – posseggono tutte un pedigree antico. Sotto il cemento e l’asfalto di oggi, giacciono rovine greche, romane e bizantine. Odessa invece non possiede nulla di tutto ciò. Oltre alla baia aperta agli aspri venti da nord-ovest, il luogo ha ben poco da offrire. Quando si guarda la città da una nave da crociera o dal traghetto, si vede una creazione recente, un luogo che per duecento anni si è vantato di non avere storia, ma lo ha anche amaramente rimpianto.
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Odessa sotto molti aspetti è una città crepuscolare, che con un certo disagio sorge in una nazione nuova e ha piú facilità a vendere il suo lontano passato che a presentarsi come città del futuro. Ma per piú di due secoli è riuscita a produrre una cultura locale profondamente pervasa di malessere, uno stile di vita che potrebbe dare una lezione sul potere creativo, ma anche distruttivo, del destino di nascere tra due sponde. Richelieu e Voroncov in Odessa videro la tavolozza completa grazie a cui realizzare le loro concezioni illuminate della modernità e della cultura. Puškin vi trovò un sentore di esotismo. Jabotinskij e Babel cercarono entrambi di sfuggire alle loro origini e di ricrearle. Quelli simili ad Alexianu fecero di tutto per cambiare i suoi connotati, tentando di dominare su una città attraente e nel contempo di svuotarla degli abitanti che la disturbavano. Mark Bernes, Leonid Utesov e moltissimi altri comici e musicisti fecero della nostalgia una forma d’arte. Le frontiere sono spazi che vengono continuamente rimodellati, in base agli ideali, meravigliosi o atroci, di chi cerca di controllarle. In questi luoghi, tuttavia, c’è qualcosa che continua a resistere anche ai progetti piú tenaci che mirano a stravolgerli.