La morte di Kurt Cobain

Vent'anni fa morì una delle più amate rockstar di sempre: nei giorni scorsi la polizia di Seattle ha diffuso nuove foto della casa in cui si uccise

Oggi, sabato 5 aprile 2014, sono vent’anni dalla morte di Kurt Cobain, cantante, chitarrista e leader dei Nirvana, il più popolare gruppo grunge tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Il corpo di Cobain fu ritrovato l’8 aprile 1994 nella sua casa vicino al lago Washington, nei dintorni di Seattle: la polizia stabilì che Cobain si era suicidato tre giorni prima, con un colpo di fucile. Aveva 27 anni. Nelle ultime settimane il dipartimento di polizia di Seattle, negli Stati Uniti, ha diffuso una serie di fotografie scattate in casa di Cobain al momento del ritrovamento del cadavere.

Nelle foto viene mostrata per la prima volta l’esatta posizione della lettera lasciata da Cobain, che la polizia classificò come una delle prove del suicidio: il foglio si trovava nella piccola serra vicino al garage, forato e bloccato al centro di una foriera con una penna. Accanto al corpo di Cobain fu anche ritrovata una scatola di sigari che conteneva alcune siringhe e altri strumenti utilizzati per il consumo di eroina (gli esami tossicologici del sangue ne rilevarono la presenza in dosi elevate).

La pubblicazione di queste nuove foto si deve al lavoro di Mike Ciesynski, un investigatore della polizia di Seattle, che ha rianalizzato e studiato i documenti relativi alla morte di Cobain e ha confermato che si trattò di un suicidio. Tra i documenti, Ciesynski ha ritrovato quattro rullini di foto – scattate allora dalla polizia della sezione narcotici sul luogo del suicidio – che non furono mai sviluppate perché non si rese necessario per la soluzione e chiusura del caso.

Le ultime comunicazioni del dipartimento di polizia di Seattle cercano di smentire diverse versioni che negli anni sono circolate riguardo la morte di Cobain, a volte diffuse dai fan ma senza fondamenti concreti. «A volte le persone credono a quello che leggono», ha detto Ciesynski, aggiungendo che la disinformazione spesso proviene da libri che alimentano teorie cospirazioniste basate sull’idea che Cobain sia stato ucciso. «È completamente inesatto: fu un suicidio, ed è un caso chiuso», ha detto Ciesynski.

Nei suoi ultimi mesi di vita, Cobain finì spesso in Italia. Alla fine di febbraio 1994 i Nirvana si esibirono al programma televisivo Tunnel, e fu una delle loro ultime performance dal vivo. Suonarono “Serve the Servants” – dal loro terzo album, In Utero, uscito pochi mesi prima – e “Dumb”.

I Nirvana venivano da un tour promozionale che aveva già subito rallentamenti o interruzioni a causa dei frequenti problemi di Cobain con le droghe. Dopo una tappa a Monaco, in Germania, a Cobain furono diagnosticate una laringite e una bronchite. Per curarsi andò a Roma, dove fu raggiunto dalla moglie Courtney Love, allora cantante e leader del gruppo musicale Hole. A Roma Cobain ebbe un’overdose da eroina e fu ricoverato al Policlinico Umberto I. Poi si riprese e tornò negli Stati Uniti. Il 18 marzo 1994 Courtney Love telefonò alla polizia dopo che Cobain, al termine di un litigio nella loro casa vicino il Lago Washington, si era chiuso in bagno con una pistola, minacciando di uccidersi. Alla fine di marzo accettò di sottoporsi a un programma di recupero per tossicodipendenti all’Exodus Medical Center di Los Angeles, in California, da cui però scappò dopo solo due giorni per andare a Seattle.

L’8 aprile 1994 un elettricista arrivò a casa di Cobain per installare un sistema di sicurezza. Fu lui a ritrovare il cadavere: disse di avere inizialmente pensato che Cobain dormisse, prima di notare la presenza del fucile. In seguito l’autopsia stabilì che la morte fu causata da un colpo di fucile alla testa.

Cobain lasciò una lettera con questo testo, scritto a mano:

Vi parlo dal punto di vista di un sempliciotto un po’ vissuto che preferirebbe essere uno snervante bimbo lamentoso. Questa lettera dovrebbe essere piuttosto semplice da capire.

Tutti gli avvertimenti della scuola base del punk-rock che mi sono stati dati nel corso degli anni, dai miei esordi, intendo dire, l’etica dell’indipendenza e di abbracciare la vostra comunità si sono rivelati esatti. Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai. Questo mi fa sentire terribilmente colpevole. Per esempio quando siamo nel backstage e le luci si spengono e sento il maniacale urlo della folla cominciare, non ha nessun effetto su di me, non è come era per Freddie Mercury, a lui la folla lo inebriava, ne ritraeva energia e io l’ho sempre invidiato per questo, ma per me non è così. Il fatto è che io non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco. Ho provato tutto quello che è in mio potere per apprezzare questo (e l’apprezzo, Dio mi sia testimone che l’apprezzo, ma non è abbastanza).

Ho apprezzato il fatto che io e gli altri siamo riusciti a colpire e intrattenere tutta questa gente. Ma devo essere uno di quei narcisisti che apprezzano le cose solo quando non ci sono più. Io sono troppo sensibile. Ho bisogno di essere un po’ stordito per ritrovare l’entusiasmo che avevo da bambino. Durante gli ultimi tre nostri tour sono riuscito ad apprezzare molto di più le persone che conoscevo personalmente e i fan della nostra musica, ma ancora non riesco a superare la frustrazione, il senso di colpa e l’empatia che ho per tutti. C’è del buono in ognuno di noi e penso che io amo troppo la gente, così tanto che mi sento troppo fottutamente triste. Il piccolo triste, sensibile, ingrato, pezzo dell’uomo Gesù! Perché non ti diverti e basta? Non lo so. Ho una moglie divina che trasuda ambizione ed empatia e una figlia che mi ricorda troppo di quando ero come lei, pieno di amore e gioia.

Bacia tutte le persone che incontra perché tutti sono buoni e nessuno può farle del male. E questo mi terrorizza a tal punto che perdo le mie funzioni vitali. Non posso sopportare l’idea che Frances diventi una miserabile, autodistruttiva rocker come me. Mi è andata bene, molto bene durante questi anni, e ne sono grato, ma è dall’età di sette anni che sono avverso al genere umano. Solo perché a tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente. Grazie a tutti voi dal fondo del mio bruciante, nauseato stomaco per le vostre lettere e l’appoggio che mi avete dato negli anni passati. Io sono troppo un bambino incostante, lunatico! E non ho più nessuna emozione, e ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.

Pace, amore, empatia.
Kurt Cobain.

Frances e Courtney, io sarò al vostro altare.
Ti prego, Courtney, continua così, per Frances.
Per la sua vita, che sarà molto più felice senza di me.
VI AMO. VI AMO.

La morte di Cobain suscitò una diffusa commozione, non soltanto nel mondo della musica. L’anno scorso, in un lungo articolo del New Yorker, Alan Rusbridger, direttore del Guardian, ha raccontato come e perché il suo giornale trattò la notizia. All’epoca Rusbridger era stato messo a capo di una nuova sezione fissa del quotidiano, e di lì a poco sarebbe diventato direttore. «I colleghi più attempati – ha raccontato Rusbridger – vennero da me a chiedermi “ma perché ce ne stiamo occupando?”, e io gli risposi “perché le nostre figlie stanno piangendo, ecco perché”».