L’“impresa di Fiume”

Come andò l'occupazione di Gabriele D'Annunzio e di una banda di avventurieri della città sulla costa croata, che 90 anni fa divenne italiana

Il 16 marzo del 1924, Benito Mussolini proclamò l’annessione all’Italia della città di Fiume, nell’odierna Croazia. Fu l’ultimo atto di una storia che era cominciata cinque anni prima, durante la conferenza di pace che aveva messo fine alla Prima guerra mondiale. La città era contesa tra Italia e Regno di Jugoslavia e divenne famosa in tutto il mondo quando venne occupata dal poeta Gabriele D’Annunzio alla guida di una banda di avventurieri. Quella che venne ribattezza “l’impresa di Fiume” fu un’occupazione militare a metà tra la farsa e la tragedia e oggi è considerata da molti storici una “prova generale” del fascismo, dove vennero utilizzate per la prima volta metodi, tattiche e simboli che sarebbero divenuti comuni nei vent’anni del regime.

A Parigi ritorno e andata
La vicenda di Fiume cominciò nella primavera del 1919, mentre i diplomatici dei paesi che avevano partecipato alla Prima guerra mondiale erano riuniti a Parigi per decidere le condizioni della pace. L’Italia era tra i paesi vittoriosi e in molti, tra politici, giornalisti e intellettuali, si aspettavano grandi risultati dalla conferenza di pace. Nel 1915 l’Italia era entrata in guerra come un paese povero e arretrato: la vittoria avrebbe dovuto trasformarla in una “grande potenza” e questo, secondo molti, significava in sostanza un’espansione territoriale.

Prima dell’entrata in guerra, il governo italiano aveva discusso con quello francese e britannico il “bottino” che sarebbe spettato al paese in caso di vittoria. Ci si aspettava una guerra relativamente breve e le richieste di ingrandimenti territoriali furono in linea con queste aspettative. La vittoria, però, era stata molto più completa del previsto: la Germania aveva dovuto accettare una resa senza condizioni, mentre il principale avversario dell’Italia, l’Impero austro-ungarico, era crollato a causa della sconfitta. Al posto di un grande impero abitato da sessanta milioni di persone, una volta e mezzo la popolazione italiana del tempo, era nata una collezione di stati più piccoli (Austria, Ungheria, Cecoslovacchia, Regno di Jugoslavia).

Il tentativo dei due principali delegati italiani inviati a Parigi, il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, era quello di cercare di ottenere più di quanto era stato concordato con gli alleati. Una delle questioni più delicate era quella che riguardava Fiume, una città sulla costa dell’odierna Croazia che non era inclusa negli accordi originali, ma che – secondo il censimento del 1910 – era abitata in maggioranza da italiani (anche se nel censimento non era considerato un grande sobborgo industriale a maggioranza jugoslava).

Una parte dell’opinione pubblica – e in particolare i nazionalisti, che numericamente erano pochi, ma molto rumorosi sulla stampa e molto ascoltati nell’esercito – continuava a chiedere l’annessione di Fiume ad ogni costo, tramite appelli, comizi e articoli di giornale, tra cui quelli del Popolo d’Italia diretto allora da Benito Mussolini. Ma quasi tutte le altre grandi potenze alla Conferenza di Parigi, e in particolare gli Stati Uniti, erano contrarie a questa richiesta. I motivi erano diversi, ma il principale era che Fiume era l’unico porto importante del nuovo regno di Jugoslavia e si temeva che, lasciando il nuovo stato senza uno sbocco al mare attrezzato, questo sarebbe nato troppo debole. Le trattative furono lunghe e molto dure e si racconta che Orlando arrivò addirittura a piangere davanti agli altri delegati (e si dice che il primo ministro francese, Georges Clemenceau, che soffriva di problemi di minzione, abbia commentato: “Se potessi pisciare quanto lui piange!”).

Il 24 aprile 1919, in un ultimo tentativo di forzare la mano agli altri delegati, Orlando e Sonnino abbandonarono Parigi e tornarono in Italia. A Roma vennero accolti da una folla di nazionalisti e furono acclamati come eroi. Tennero entrambi lunghi e pomposi discorsi in cui sottolinearono la loro determinazione a non partecipare più alle trattative, se le richieste italiane non fossero state prese in considerazione. Una settimana dopo, il 5 maggio, quando divenne chiaro che non c’era possibilità di far cambiare idea ai delegati delle altre potenze e mentre il bottino della guerra cominciava ad essere spartito senza tener conto dell’Italia, Orlando e Sonnino tornarono a Parigi.

La marcia su Ronchi
Una cosa, però, Orlando e Sonnino erano riusciti ad ottenerla: la questione di Fiume era sulle prime pagine di tutti i giornali ed era divenuta il simbolo della sconfitta dell’Italia al tavolo della pace. Nello stesso tempo il governo aveva fatto una pessima figura. Tornato a Roma, Orlando venne sfiduciato e sostituito da Francesco Saverio Nitti. Ormai la destra nazionalista, ma anche settori più moderati dell’opinione pubblica, parlavano apertamente di “vittoria mutilata”. Con queste parole si intendeva dire che l’Italia non era stata ricompensata a sufficienza dei suoi sforzi e dei suoi caduti. Fiume divenne un simbolo dell’egoismo degli alleati, che avevano colpevolmente trascurato la parte di bottino che sarebbe spettata all’Italia.

Tra i più accesi sostenitori della tesi della vittoria mutilata ci fu Gabriele D’Annunzio, che all’epoca aveva 56 anni ed era il poeta e l’intellettuale più famoso del paese, oltre che uno dei più accesi sostenitori del nazionalismo. In una serie di discorsi incendiari, tenuti in giro per l’Italia, D’Annunzio accusò le potenze alleate e il governo italiano di aver tolto il giusto bottino «a una nazione vittoriosa, anzi alla più vittoriosa di tutte le nazioni, anzi alla salvatrice di tutte le nazioni». Accanto a D’Annunzio in questa campagna – e con un rapporto di reciproco odio e amore – c’era Mussolini, che sul Popolo d’Italia riprendeva le tesi e i discorsi del poeta. Anche se l’Italia in quei mesi aveva ben altri problemi (l’inflazione, la smobilitazione dell’esercito, la riconversione dell’economia di guerra in economia di pace), a leggere i giornali di quei giorni sembrava che il destino del paese dipendesse soltanto da quell’unica, piccola città affacciata sull’Adriatico.

La crisi
A Fiume, intanto, la situazione era piuttosto caotica. La città formalmente apparteneva al Regno di Jugoslavia, ma era presidiata da un contingente internazionale (di cui facevano parte anche soldati italiani). L’amministrazione civile era gestita da un consiglio cittadino che a volte sembrava parteggiare per l’indipendenza della città, a volte per l’annessione all’Italia. Mentre in Italia i giornali sostenevano a gran voce la richiesta dell’annessione, a Fiume si formarono varie bande di paramilitari, composte da fiumani ma anche e soprattutto da ex militari e avventurieri arrivati dall’Italia.

Tra i filo-italiani e i soldati del corpo di spedizione, in gran parte francesi, ci furono diversi incidenti e scontri che causarono anche alcuni morti. Ad agosto, in una sola giornata, furono uccisi nove soldati francesi. A Parigi, dove era ancora in corso la conferenza, Clemenceau protestò duramente e riuscì a ottenere che il contingente di militari italiani a Fiume venisse rimpatriato, a causa del suo comportamento troppo morbido nei confronti delle milizie.

Nel frattempo D’Annunzio era andato molto oltre i discorsi in piazza. Grazie ai suoi contatti tra i nazionalisti, tra i reduci della guerra e tra gli ufficiali dell’esercito aveva messo insieme armi e volontari per una piccola spedizione militare. La sua intenzione era compiere un colpo di mano: occupare improvvisamente Fiume e proclamarne l’annessione all’Italia. Quando ad agosto la guarnigione italiana fu costretta ad abbandonare la città, D’Annunzio decise di partire. L’11 settembre scrisse una lettera al suo amico e avversario Mussolini:

«Mio caro compagno, il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista. Mi levo dal letto febbricitante. Ma non è possibile differire. Ancora una volta lo spirito domerà la carne miserabile… Sostenete la Causa vigorosamente, durante il conflitto. Vi abbraccio»

Il giorno successivo, accompagnato da una folla variopinta di ex militari, avventurieri e miliziani di Fiume – circa mille persone – D’Annunzio raggiunse il confine italiano a Ronchi. I militari che avrebbero dovuto fermarlo disertarono e si unirono alla sua banda. Quando un generale provò a fermarlo, D’Annunzio aprì il pastrano mostrando il petto coperto di medaglie ottenute in guerra e disse (o almeno: scrisse di aver detto): «Lei non ha che a far tirare su di me, Generale!». Il generale non ordinò di sparare e nel pomeriggio del 12 settembre D’Annunzio e i suoi entrarono nella città di Fiume.

L’impresa di Fiume
D’Annunzio e i suoi “legionari”, come aveva battezzato la sua variegata banda di avventurieri, occuparono la città senza grossi incidenti. Per timore di causare un incidente diplomatico, i soldati del corpo di spedizione alleato furono lasciati in caserma e, pochi giorni dopo, furono evacuati. Il primo gesto di D’Annunzio fu occupare il municipio e tenere un magniloquente discorso dal balcone – durante il quale proclamò il 12 settembre “giorno della Santa Entrata”. Per il resto fu chiaro che né D’Annunzio né i suoi principali ufficiali avevano le idee chiare su cosa fare.

La loro idea originale – proclamare l’annessione all’Italia – incontrava un sostanziale problema: l’Italia non sembrava interessata ad annettersi Fiume (e non avrebbe potuto, visto che aveva gli occhi di tutti i governi europei puntati addosso). Nonostante questo ostacolo, D’Annunzio procedette ugualmente ad organizzare un plebiscito – verrebbe da dire un referendum – in cui veniva chiesto ai fiumani di esprimersi sull’annessione all’Italia.

Nel frattempo la banda di avventurieri si ingrandiva. D’Annunzio era partito con trecento uomini e arrivato a Ronchi ne aveva già un migliaio. Dopo l’occupazione di Fiume, in poche settimane, riuscì a mettere in piedi un esercito privato di circa cinquemila soldati. Si trattava dello stesso materiale umano molto eterogeneo che aveva composto la sua prima banda. C’erano ex eroi di guerra come Guido Keller, un eccentrico esteta e asso dell’aviazione che diceva di cibarsi soltanto di petali di rosa candita. Poeti futuristi, come Filippo Tommaso Marinetti, che trascorse in città alcuni mesi; moltissimi nazionalisti spesso molto giovani. E poi avventurieri, a volte anche stranieri, tra cui belgi, egiziani e irlandesi. Il più curioso di tutti fu probabilmente Harukichi Shimoi, un poeta e scrittore giapponese che durante l’occupazione di Fiume fu incaricato di portare i messaggi di D’Annunzio a Mussolini, che si trovava Milano. Indro Montanelli, che conosceva Shimoi e lo intervistò diverse volte, disse di lui che non parlava italiano, “ma soltanto napoletano”.

In accordo con il gusto di D’Annunzio, l’occupazione di Fiume fu molto “estetica”, cioè venne prestata molta attenzione a tutti i dettagli esteriori come bandiere, vessilli e uniformi. Molti elementi che poi sarebbero entrati a far parte dello stile fascista nacquero a Fiume. Quasi tutti i legionari e gli ufficiali portavano la camicia nera e tenevano un pugnale al fianco, legato alla cintura. Quasi altrettanto diffusi erano i teschi e le tibie incrociate, i riferimenti alle grandezza di Roma e le aquile imperiali. Si diffuse anche il saluto con il braccio teso, il fez nero e il grido “A noi!” (nella forma originale, che era: “A chi Fiume?” “A noi!”).

Furono inaugurate per la prima volta anche abitudini meno innocue. A Fiume imperversavano le squadracce armate di bastoni e manganelli. Gli uomini di D’Annunzio sapevano bene che metà – e forse più di metà – dei fiumani non vedeva di buon occhio l’annessione all’Italia (e nemmeno la bizzarra avventura dei “legionari”): il loro scontento andava tenuto a bada. Per la prima volta venne utilizzato l’olio di ricino, un fortissimo lassativo, come metodo per punire e umiliare i dissidenti. Grazie anche a questi metodi, il giorno del plebiscito sull’annessione, il 26 ottobre 1919, 6.999 votarono a favore e soltanto 156 furono contrari. Il problema però rimaneva: il governo italiano non voleva e non poteva annettersi Fiume.

La caduta di Fiume
Dopo la fine dell’occupazione di Fiume e soprattutto dopo la fine del regime fascista, è stato piuttosto facile per gli storici trattare l’impresa di D’Annunzio come lo scherzo di un megalomane ormai in là con gli anni. All’epoca, però, per il governo fu un affare molto pericoloso. Quando i militari di guardia al confine non solo non fermarono D’Annunzio, ma addirittura si unirono alle sue file, molti a Roma cominciarono a temere che fosse vicino il momento di un colpo di stato.

In realtà furono solo poche centinaia i soldati che si schierarono con D’Annunzio, ma nonostante questo il generale Pietro Badoglio scrisse al governo che, se fosse stata ordinata l’occupazione di Fiume, non avrebbe potuto rispondere della fedeltà delle sue truppe. Forse furono esagerazioni, ma il governo Nitti prese molto sul serio questi pericoli e trattò D’Annunzio con grande prudenza. Non poteva – ovviamente – dargli tutto ciò che desiderava, cioè l’annessione di Fiume all’Italia, visto che questo avrebbe violato i trattati usciti dalla Conferenza di Parigi, ma cercò anche di non provocarlo. L’esercito non venne inviato a occupare nuovamente Fiume e D’Annunzio venne considerato un interlocutore legittimo per le trattative con cui cercare di risolvere la crisi. Il governo Nitti riuscì a sopravvivere in questo modo per un anno. Poi, nel maggio del 1920, cadde e venne sostituito da un governo molto più forte: a presiederlo c’era Giovanni Giolitti, uno dei politici italiani più importanti e famosi dell’epoca.

Dopo il cambio di governo, D’Annunzio decise che i tentativi di costringere l’Italia ad annettere Fiume erano falliti e nel settembre del 1920 fece approvare una costituzione che trasformava Fiume in una specie di stato indipendente. La “Carta del Carnaro”, come venne ribattezzata, era un complicato guazzabuglio di varie e confuse ideologie. Nonostante lo stato venisse dichiarato una democrazia diretta, di fatto il potere veniva esercitato da D’Annunzio e dai caporioni delle varie milizie. Fiume fu il primo “stato” al mondo a riconoscere l’Unione Sovietica, che era nata proprio in quegli anni, e questo causò numerose incomprensioni tra D’Annunzio e gli altri membri del governo. Per molti nazionalisti, il nemico principale erano proprio i socialisti e i comunisti russi (D’Annunzio su questo aveva idee confuse: anni prima era stato eletto al parlamento proprio tra le file dei nazionalisti, ma durante la legislatura passò brevemente al partito socialista).

Mentre a Fiume il governo di D’Annunzio litigava con gli altri capi dell’impresa, Giolitti firmò con la Jugoslavia un trattato per mettere fine alla questione di Fiume, il trattato di Rapallo. La città avrebbe acquisito lo status di “città libera”, sottoposta a una specie di “tutela” italiana. Il trattato venne approvato anche da Mussolini e da molti nazionalisti italiani, che erano ormai stanchi delle eccentricità di D’Annunzio. Il 23 dicembre l’esercito italiano lanciò un ultimatum a D’Annunzio: entro il giorno successivo D’Annunzio e i suoi uomini avrebbero dovuto abbandonare la città.

D’Annunzio respinse l’ultimatum e l’esercitò italiano attaccò. Il 24 e il 25 dicembre ci furono scontri in cui morirono alcune decine di legionari e di soldati italiani. La corazzata italiana “Andrea Doria” sparò alcuni colpi di cannone che colpirono la residenza del governatore, dove risiedeva D’Annunzio. Pochi giorni dopo, D’Annunzio firmò la resa della città. Curiosamente, né per lui né per i suoi uomini ci furono conseguenze. L’esercito italiano occupò la città, dove D’Annunzio rimase – senza essere molestato – fino al 18 gennaio, quando decise di partire e di ritirarsi in una sorte di esilio volontario nella sua villa di Gardone, sul Lago di Garda. Lo Stato Libero di Fiume sopravvisse appena due anni alla bizzarra impresa del poeta. Nel gennaio del 1924 l’Italia e la Jugoslavia firmarono un trattato in cui il territorio di Fiume veniva diviso a metà tra i due stati. Il 16 marzo del 1924, novant’anni fa, re Vittorio Emanuele III entrò a Fiume e proclamò la città parte del Regno d’Italia.

Foto: Gabriele D’Annunzio, in basso a destra, in piedi sull’automobile, lascia Fiume (Topical Press Agency/Getty Images)