5 risposte sugli uiguri
Chi sono, cosa vogliono e quanto è grave il conflitto col governo cinese: se ne parla, di nuovo, dopo l'attentato con coltelli e machete alla stazione di Kunming
Sabato 1 marzo diverse persone armate di coltello e machete sono entrate in una stazione ferroviaria di Kunming, una città di circa 3,5 milioni di abitanti nella Cina sudoccidentale, e hanno colpito i passanti provocando la morte di almeno 29 persone, mentre diverse altre decine sono state ferite (almeno 143, secondo Associated Press). La polizia cinese è intervenuta e almeno quattro attentatori sono stati uccisi nella sparatoria, portando a 33 il numero dei morti. La mattina del 2 marzo l’agenzia di stampa Xinhua ha riportato le parole di un funzionario del governo locale che indicava come gli attacchi «terroristici» fossero stati «pianificati e organizzati dalle forze separatiste dello Xinjiang»: gli uiguri. Le indagini sono comunque ancora in corso. Nel frattempo, il Washington Post ha risposto ad alcune domande per cercare di spiegare una delle questioni di politica interna più complicate e ricorrenti della Cina: quella relativa alla regione dello Xinjiang, appunto, e dei suoi abitanti.
1. Che cosa è lo Xinjiang?
Lo Xinjiang è una regione in gran parte costituita da deserti nel nord ovest della Cina. Lo Xinjiang, che significa “Nuova Frontiera”, è stato portato sotto il completo controllo della Cina nel 1949: confina con otto stati (India, Pakistan, Russia, Mongolia, Kazhakistan, Afghanistan, Tagikistan e Kirghizistan) e rappresenta per questo un passaggio obbligato per gli scambi commerciali con l’Asia Centrale e l’Europa. Inoltre è molto ricco di gas e petrolio.
La capitale dello Xinjiang è Urumqi; un altro centro molto importante è Lukqun a circa 200 chilometri a sud est della capitale. Circa il 41 per cento della popolazione dello Xinjiang è di etnia han mentre gli uiguri rappresentano il 43 per cento. Nella regione sono frequenti da molti anni proteste contro il regime di Pechino e scontri etnici.
2. Che cosa vogliono gli uiguri?
Genericamente si può dire che gli uiguri non accettano la presenza dei cinesi han nella regione, in costante afflusso, e denunciano da tempo le repressioni e le discriminazioni subite per mano del governo. Non è però possibile accomunare le loro proteste: esistono infatti diversi tipi di rivendicazioni al loro interno. C’è chi chiede semplicemente un trattamento più equo, chi invece la secessione dalla Cina.
Le proteste degli uiguri sarebbero comunque una reazione: per loro la questione centrale sono le restrizioni religiose. Gli uiguri devono utilizzare una versione del Corano approvata dal governo, le moschee sono gestite dal governo, gli uomini che vogliono incarichi nell’amministrazione pubblica sono costretti a radersi la barba, alle donne è vietato indossare il velo.
3. Quanto è grave il conflitto cinese con gli uiguri?
Gli scontri etnici tra uiguri e han proseguono da diversi anni, ma i più violenti – con una conseguente durissima repressione da parte della polizia – risalgono al 2009, quando a Urumqi quasi 200 persone rimasero uccise e oltre 1600 ferite. Sulle motivazioni di quella rivolta non si hanno molte notizie: quel che si sa per certo è che la regione venne isolata e vennero interrotte anche le linee telefoniche. Altri episodi di rivolta e violenza si sono verificati nell’aprile del 2013 a Kashgar, con un bilancio complessivo di 21 morti, e a giugno quando la polizia ha aperto il fuoco contro un gruppo di persone che avevano attaccato la stazione di Lukqun (i morti furono 27).
Quel che sembra essere cambiato nel tempo è l’emergere di attacchi terroristici mirati. Per i cinesi l’attentato più scioccante attribuito agli uiguri si è verificato nel mese di ottobre 2013, quando in piazza Tiananmen, a Pechino, un’auto si è lanciata contro la folla e ha preso fuoco all’entrata della Città Proibita, ferendo 38 persone e provocando la morte di altre 5. Rivolte e “attacchi terroristici” nello Xinjiang hanno fatto comunque oltre cento morti nell’ultimo anno.
4. La Cina come ha affrontato la questione uigura?
La Cina, esattamente come ha fatto per il Tibet, ha tentato di risolvere il “problema” dello Xinjiang favorendo la cosiddetta politica di “sommersione etnica”, cioè facendo emigrare nella regione sempre più cinesi han in modo da rendere gli uiguri, come nel resto del paese, una minoranza, e cercando inoltre di disincentivare lo studio della lingua uigura tanto che potrebbe scomparire completamente entro 50 anni.
Inoltre, nel 2004 il governo centrale ha lanciato la campagna “Go West”, per attrarre investitori stranieri nella regione e trasformarla in un luogo turistico: i progressi economici riguarderebbero però solamente gli han, mentre gli uiguri non avrebbero ottenuto alcun vantaggio dallo sviluppo faticando a trovare lavoro e diventando sempre più poveri. C’è infine una terza azione perseguita dal governo: far riconoscere a livello internazionale il ”terrorismo separatista uiguro”, associandolo a quello di al Qaida.
5. Come hanno reagito gli uiguri agli attacchi?
Mentre alcuni leader uiguri hanno condannato gli attacchi, la maggior parte ha espresso molte perplessità circa la versione governativa sugli eventi più recenti: «Non c’è alcun motivo legittimo per attaccare i civili. Esprimiamo le nostre condoglianze ai familiari dei morti», ha detto per esempio Dilshat Rexit, portavoce del Congresso mondiale uiguro, una organizzazione che difende la causa dell’etnia, ma ha aggiunto: «La Cina non può utilizzare quello che è accaduto come un nuovo pretesto per ulteriori repressioni e discriminazioni nei confronti degli uiguri».
Dopo l’incidente di piazza Tiananmen, Rebiya Kadeer, politica cinese naturalizzata statunitense, attiva nella difesa dei diritti umani e della comunità uigura, aveva detto: «Il governo cinese non esiterà a inventare una sua versione dell’incidente a Pechino e imporrà ulteriori misure repressive contro il popolo uiguro». Così è stato. Negli ultimi tempi, il governo cinese ha promosso un’ulteriore rafforzamento delle misure di sicurezza da parte della polizia nella regione: tra queste, l’installazione di telecamere fuori e dentro le moschee e l’emanazione di 21 nuovi regolamenti che disciplinano la religione per «salvaguardare la stabilità sociale e preservare l’unità etnica».