Le privatizzazioni del governo Letta

In cosa consiste l'annunciato piano per ottenere 10-12 miliardi dalla vendita di partecipazioni statali e perché viene criticato

Giovedì 21 novembre si è riunito il Consiglio dei ministri, e nel comunicato stampa pubblicato al termine della seduta si dice che il governo «ha ascoltato una relazione del Ministro dell’Economia e delle Finanze, Fabrizio Saccomanni, sulle privatizzazioni nella quale è stata affrontata l’opportunità di mettere in vendita quote di società pubbliche senza andare a toccare la quota di controllo delle stesse.»

Il piano di Saccomanni prevede un incasso tra i 10 e i 12 miliardi di euro per il prossimo anno, da ottenere con la vendita di quote in otto società pubbliche. Letta ha detto che queste prime privatizzazioni – all’inizio del 2014 si dovrebbe lavorare a un altro piano – verranno effettuate in circa un anno e che «la metà andrà a riduzione del debito pubblico nel 2014, l’altra per la ricapitalizzazione della Cassa Depositi e Prestiti». Il piano è motivato in parte dal fatto che la Commissione Europea ha recentemente mosso alcune critiche alla politica economica italiana: con le misure annunciate ieri si cerca anche di ottenere maggiore flessibilità da parte dell’UE nel permettere maggiori spese per gli investimenti (si parla di circa 3 miliardi di euro).

Il Corriere elenca le società di cui si sta parlando, che fanno parte soprattutto dei settori dei trasporti e dell’energia:

1) Eni, il gigante del petrolio e del gas partecipato al 30,1% dal Tesoro e da Cdp, la Cassa depositi e prestiti (gestisce il risparmio postale); 2) Stm, holding italo-francese partecipata al 50% dal Tesoro, che controlla StmMicroelectronics, leader nella produzione di componenti elettronici a semiconduttori 3) Fincantieri, tra i leader mondiali della cantieristica, posseduta al 99,3% da Fintecna (Cdp); 4) Cdp Reti, il veicolo di investimento posseduto al 100% dalla Cassa depositi e presiti che ha acquisito l’anno scorso dall’Eni il 30% di Snam (gas); 5) Tag, la società partecipata all’89% da Cdp che gestisce in esclusiva il tratto austriaco del gasdotto che trasporta il gas dalla Russia in Italia; 6) Grandi stazioni, controllata al 60% dalle Ferrovie dello Stato per la gestione delle principali stazioni italiane; 7) Enav, la società per il controllo del traffico aereo al 100% del Tesoro; 8) Sace, gruppo per l’assicurazione dell’export posseduto interamente da Cdp.

Il ministro dell’Economia Saccomanni ha detto che sarà messo in vendita il 60 per cento di SACE (per cui, scrive il Sole 24 Ore, ci sarebbe un interesse da parte del gruppo Generali), il 60 per cento di Grandi Stazioni, il 40 per cento di ENAV, il 40 per cento di Fincantieri e il 50 per cento di CDP Reti. Le due principali società di cui lo stato perderebbe il controllo sono quindi il gruppo assicurativo SACE e Grandi Stazioni, che attualmente fa parte del gruppo Ferrovie dello Stato e che è già per il 40 per cento di proprietà di privati. Grandi Stazioni gestisce le tredici principali stazioni ferroviarie italiane.

Le critiche al piano
Il piano di privatizzazioni del governo, annunciato ieri ma di cui si parla da qualche giorno, ha già ricevuto diverse critiche. Il debito pubblico italiano è attualmente a circa 2068 miliardi e che quindi una riduzione di 6 miliardi – circa lo 0,3 per cento – non è un intervento molto incisivo in numeri assoluti. Ma la critica maggiore che è stata fatta in questi giorni riguarda il ruolo della Cassa Depositi e Prestiti, che è formalmente una società per azioni ma è detenuta all’80 per cento dal Tesoro e ha lo scopo principale di gestire il risparmio postale.

Francesco Giavazzi ha pubblicato martedì 19 novembre un editoriale molto duro intitolato “Privatizzare un po’ per finta” in cui si augura che le quote di società che oggi sono del Tesoro non vengano vendute alla CDP, anch’essa di proprietà del Tesoro, come è stato fatto molte volte fino al 2012 (per ENI, ENEL, Terna, SNAM, SACE, Simest, Fintecna e Ansaldo Energia, elenca Giavazzi): non sarebbero quindi privatizzazioni “vere”, ma un modo di ridurre solo sulla carta il totale del debito pubblico, spostandolo di fatto dal Tesoro alla CDP. Non è di questa opinione l’economista Alberto Quadrio Curzio, secondo cui invece la CDP si deve considerare a tutti gli effetti una società privata.

Un’altra critica riguarda la cessione del 3 per cento circa di ENI, la più grande azienda italiana. Mario Seminerio ha scritto che il reale guadagno economico dell’operazione rimane poco chiaro:

Eni, ai prezzi attuali, ha un dividend yield del 6%. Il che vuol dire che, se confermato, il Tesoro non incasserà più dividendi per una somma che possiamo stimare sui 120 milioni di euro annui. Se quei due miliardi andranno ad abbattere il debito pubblico, però, avremo minori interessi passivi da pagare. Sapendo che il costo medio del debito pubblico italiano è di circa il 4,5%, ciò significa che risparmieremo 90 milioni annui. L’operazione pare concludersi con un saldo annuo negativo (cioè deficit) per 30 milioni di euro, ma sicuramente ci sfugge qualcosa.