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  • Martedì 5 novembre 2013

La malapolvere

La storia dell’Eternit di Casale Monferrato, dei suoi operai e di come morivano, dall’ultimo libro di Marco Imarisio

Il Saggiatore ha pubblicato un nuovo libro di Marco Imarisio, giornalista e inviato del Corriere della Sera, Italia ventunesimo secolo. Volti e storie dagli anni dell’abisso. Il libro raccoglie articoli scritti da Imarisio negli ultimi quindici anni sul Corriere della Sera e sull’Europeo, che ha pubblicato nel 2012 l’articolo che segue: racconta la storia dell’Eternit di Casale Monferrato, dei suoi operai e del modo in cui morivano.

***

La città bianca si salvò grazie alle sue industrie. I bombardieri, prima alleati e poi tedeschi, furono costretti a risparmiare Casale Monferrato. Quel bersaglio di 30mila anime adagiato tra le ultime risaie del Vercellese e le prime colline che diradano su Asti non si vedeva neppure di giorno. Era coperto da una nuvola perenne, sprigionata dai cementifici che dall’inizio del secolo avevano la loro sede nel quartiere popolare del Ronzone. La più grande di tutte, quella che stava in fondo a via Oggero e aveva concentrato la sua produzione proprio in questo angolo del Monferrato, era considerata un gioiello.

La «fabbrica» per eccellenza era arrivata in città nel 1906 e dall’anno seguente aveva cominciato a produrre e ad assumere maestranze, gente orgogliosa di finire in quel casermone: il mestiere di operaio era un passo avanti nella scala sociale rispetto alla malora della vita contadina. In quello stabilimento di 94mila metri quadrati si stava come alla Fiat, riuscire a entrarci era come una polizza di assicurazione sul futuro, pane e prestigio. La Schweizerische Eternitwerke era il progresso, una società moderna e dinamica che voleva mettere in produzione il brevetto creato da uno scienziato austriaco e portato in Italia dall’ingegnere Adolfo Mazza di Genova. Un prodotto innovativo che, mischiando cemento e amianto, dava un materiale indistruttibile, capace di resistere a sollecitazioni estreme e al fuoco. Fu per questo che lo chiamarono Eternit, dal latino aeternitas, eternità. Per sempre. Nessuno poteva immaginare quanto quel nome potesse rivelarsi profetico, ma non certo nel senso immaginato dai creatori.

Cominciò negli anni cinquanta. Accadeva qualcosa di strano agli operai dell’Eternit: morivano. Non era solo l’asbestosi, già grave di suo, con disturbi respiratori e una tosse che non finiva più. C’era dell’altro. Erano pochi, troppo pochi quelli che arrivavano a godersi la pensione. La parola «mesotelioma» non era ancora conosciuta in Italia e gli studi sul tumore della pleura indotto dall’amianto erano ai primordi. Ma era impossibile non accorgersi di quelle morti tremende, agonie infinite, dolori atroci alla schiena e al torace prima di annegare dentro. Proprio così: soffocati dall’acqua che riempiva i polmoni.

Il primo lavoratore ad alzare la testa chiedendo all’azienda l’adozione di mascherine e ventilatori all’interno di un luogo chiuso e saturo della polvere bianca di amianto si chiamava Mario Pavesi. Era uno sgobbone, un tipo taciturno che nel 1948 aveva sposato Romana Blasotti, profuga istriana arrivata a Casale seguendo il papà Ottavio, che era stato anche impiegato alla Salonit, una fabbrica slovena di manufatti di amianto, ma in Piemonte aveva trovato lavoro in una officina metalmeccanica, lontano da quella polvere.

Nel 1961 anche i giornali nazionali parlarono brevemente di Casale Monferrato. Lo sciopero degli operai dell’Eternit, incentrato sulla tutela della salute nel posto di lavoro, aveva bloccato il ponte sul Po, le cariche della polizia erano state violente. Il resto della città era andato avanti lo stesso. Non si conosceva poi molto di quel che avveniva oltre le mura di cinta dell’Eternit, la grande fabbrica era un mondo a parte, da ringraziare perché la sua presenza in questa terra di contadini rappresentava davvero quello che la Fiat dell’epoca era per Torino. Ma qualcuno sapeva. I pochi lavoratori che, spaventati dalle morti dei loro colleghi più anziani, decidevano di andarsene, facevano fatica a trovare un nuovo posto. «Sono tutti malati», era questa la vox populi sui reduci dell’Eternit.

Dentro andava anche peggio. I controlli erano pochi e fatti da consulenti nominati dall’azienda. C’era anche un reparto punitivo chiamato «Cremlino». Era quasi sotto il livello del canale che costeggiava la fabbrica, tetti bassi, nessuna finestra, l’amianto lavorato a mano, i cumuli smossi con i forconi. Una volta il capo del personale scese per dare un’occhiata e disse davanti a tutti che non c’era affatto polvere in quel posto. Un’operaia gli prese il cappello di feltro e lo appoggiò su un macchinario. Vieni tra due giorni a riprenderlo, gli disse, e poi vedrai se non c’è polvere. Anni dopo morì anche lui di mesotelioma, come l’operaia che si era ribellata, come tutti gli altri. Non c’è nessuno che possa più raccontare cos’era il Cremlino. Negli anni ci lavorarono almeno 120 persone. Tutti morti di mesotelioma.

Chissà quando se ne sono resi conto che morivano tutti, non solo gli operai, e nessuno poteva dirsi al sicuro. Nel 1969 il vento fece il suo giro, allora si disse così. In via Roma, la strada dei ricchi, il cuore di Casale, morirono sette «civili» in poco tempo. Qualcuno pensò subito al chiosco Eternit che al principio della via distribuiva il polverino di amianto, che veniva poi spalmato sui vialetti, usato per farci giocare i bambini come fosse sabbia da spiaggia. Poco tempo dopo morì la panettiera del Ronzone, che preparava i panini agli operai: davanti al suo alimentari c’era la fila di lavoratori con la tuta coperta di bianco.

Al suo primo giorno di fabbrica, il giovane Nicola Pondrano venne fermato all’ingresso dal vecchio Marenco, uno degli operai più anziani. Lo squadrò dalla testa ai piedi. «Che vieni a fare qua dentro, che sei così giovane? Anche tu sei venuto a morire?» Pondrano era poco più che un ragazzo quando entrò in fabbrica. Orfano di madre, cresciuto a Vercelli da uno zio che era stato comandante partigiano. Ogni settimana vedeva che i nomi nei necrologi affissi alla bacheca del consiglio di fabbrica cambiavano. C’era qualcosa di brutto nell’aria dello stabilimento del Ronzone. Qualcosa che uccideva. Entrò ben presto nel consiglio di fabbrica, determinato a fermare una strage che di giorno in giorno diventava sempre più evidente, in quella sede distaccata di una multinazionale che, dal 1933, era legata alla dinastia degli Schmidheiny, famiglia di imprenditori svizzeri che nel 1973 divenne responsabile degli stabilimenti italiani, fino a quel momento controllati dalla famiglia del «fondatore» Mazza, affiancata dai belgi De Cartier de Marchienne.

Bruno Pesce invece non ha mai lavorato all’Eternit. Quand’era garzone di bottega nelle gioiellerie di Valenza usava le lastre d’amianto come base d’appoggio per modellare gli oggetti d’oro. Aveva mollato tutto per entrare in Cgil. Nel 1979 il sindacato lo spedì a Casale. Pondrano è un esuberante, anche oggi la sua abbronzatura da vacanza e il completo in lino trasmettono un’idea di vitalità. Pesce è un uomo mite, la cui gentilezza nasconde un’ostinazione feroce. Indossa camicie a mezze maniche, parla con voce piana, ascolta jazz per astrarsi da una vita dedicata a questa battaglia. Difficile pensare a due tipi più diversi tra loro, difficile pensarli nel ruolo di Erin Brockovich delle colline.

Eppure è andata così, se sappiamo qualcosa di una tragedia immane il merito è anche, o soprattutto, di questi due strani italiani. Dal loro incontro sono nate le prime indagini ambientali minimamente attendibili. Nel 1981 hanno passato una notte intera al telefono, contattando a uno a uno i 120 dipendenti candidati dall’Eternit a dimissioni ben remunerate, con una sola clausola, rinunciare all’indennità prevista per chi aveva lavorato l’amianto. Pondrano e Pesce sono stati i primi ad accorgersi che la morte del maestro elementare Giuseppe Bertolotti, nel 1978, non era una fatalità, ma l’ulteriore rivelazione di una realtà atroce: la fabbrica uccide anche chi non ci ha mai lavorato. Portarono la protesta a Roma, sotto le finestre dell’Inail. Lanciarono una campagna d’informazione nella loro città, pagandola di tasca propria. Fondarono il comitato delle vittime. C’è una vecchia foto in bianco e nero, datata 1983, che li ritrae in un’aula di tribunale con altri cinque uomini. Sono intorno all’operaio Giovanni Demicheli, che nella prima causa per il risarcimento del danno ambientale si presentò a testimoniare steso su una barella. Morì cinque giorni dopo. Anche gli altri cinque non ci sono più, portati via da un male velenoso capace di nascondersi per oltre trent’anni.

«La vuole leggere lei? Io non ci riesco.» Romana Blasotti porge una poesia dedicata a sua figlia, scritta dalla dottoressa che cercò di alleviarne le sofferenze. Approfitta del silenzio che è sceso nel tinello e si alza. Va in cucina a preparare il caffè. Lo sguardo dell’ospite si posa inevitabilmente sulle pareti e sul ripiano della credenza, pieni di volti, in bianco e nero, a colori. Una delle foto più datate ritrae un gruppo di giovani che sorridono, con lei al centro. L’uomo che fissa l’obiettivo ha la fronte spaziosa, lo sguardo buono, le mani in tasca. Si sono sposati qualche mese dopo quello scatto. Mario Pavesi si ammalò nel febbraio del 1982. «Quando il medico mi disse che aveva un tumore, non mi feci impressionare. “È un uomo forte, lo cureremo” gli risposi. “No, signora, non è possibile. Mesotelioma. Non c’è nulla da fare”.» Almeno c’era la sua vita di fabbrica, a giustificare quella morte, venti anni passati all’Eternit. L’amianto se lo mangiò in pochi mesi.

Ma gli altri, loro non ci avevano mai messo piede nello stabilimento al Ronzone. Nel 1990 toccò a Libera, la sorella minore di Romana. Stessa malattia, stessa fine atroce e veloce. Nel 2003, a una giovane nipote e a una cugina. L’anno seguente, il destino aveva in serbo il più schifoso degli insulti. Maria Rosa, sua figlia. «Fu lei a consolare me. Quando seppe la diagnosi, mi fece sedere e mi disse che dovevo farmi forza.» La visita alla signora Romana, diventata presidente onorario del Comitato vittime, è diventata una specie di rito. Nella sua casa piena di centrini e di ricordi, di sorrisi che rimangono vivi solo nelle foto e nella memoria si percepisce la dimensione di questa tragedia, il suo impatto sulle famiglie e su una città, roba che i numeri da soli non bastano a rendere, anche se sono numeri di guerra, quasi più morti che nel conflitto in Irlanda del Nord. Solo a Casale sono morte 1580 persone, 2900 in tutta Italia, perché Eternit aveva altre sedi, a Rubiera di Reggio Emilia, a Cavagnolo, in provincia di Torino, a Bagnoli (Napoli).

È quasi blasfemo dirlo, ma gli operai sono il passato di questa storia. L’Eternit chiuse nel 1986, il ramo italiano dell’azienda venne dichiarato fallito. Sembra un paradosso, ora, ma furono tante le voci che sollecitarono un salvataggio in extremis, «per non privare del futuro la nostra gioventù». Ma Casale ormai cominciava a capire. Pesce e Pondrano trovavano alleati con frequenza sempre maggiore, tutta gente unita dal dolore della perdita di qualche familiare. Nel 1987 un sindaco coraggioso, Riccardo Coppo, democristiano di altri tempi e altra tempra, aveva proibito l’uso dell’amianto su tutto il territorio casalese, avviando l’opera di bonifica. A forza di schiaffi, la città si rese conto che il mesotelioma non è certo una malattia professionale che riguarda solo gli operai. La botta più forte arrivò alla vigilia del Natale 1988. Piercarlo Busto, detto «Pica», bancario, padre di una bimba nata da poco, fondatore della squadra di basket, che dopo il lavoro andava a correre vicino all’Eternit, morì a soli 33 anni. Sua moglie trovò il coraggio di affiggere sui muri un cartello funebre nel quale si diceva che «l’inquinamento da amianto lo ha tolto all’affetto di chi lo amava», e quel manifesto listato a lutto fu lo sparo nel buio di una città che faticava ancora a capire che cosa stesse succedendo, dove quelle morti orribili erano vissute con fatalità, accidenti del destino. Lasciatelo stare, il destino.

La fabbrica del Ronzone è diventata un sarcofago di cemento. Venne tumulata nel 2000, con un’operazione simile a quella fatta con Černobyl’. Ma tutto questo non è servito a fermare la Spoon River di Casale. Diventa sempre più chiaro che questo disastro è opera degli uomini. L’inosservanza di qualsiasi disposizione in materia di sicurezza sul lavoro diventa quasi un dettaglio. Quei signori, prima il belga e poi, soprattutto, lo svizzero, sapevano. Sapevano della nocività dell’amianto, sapevano che uccideva, ma hanno consapevolmente scelto di non fermare la produzione, di non convertirla neppure. Hanno scelto di non fare nulla: profitto omnia vincit, anche sulla pelle della gente. Questa è, fondamentalmente, l’accusa contenuta nel faldone di denuncia che il 22 dicembre 2004 è stato portato a mano da Casale a Torino, nell’ufficio di uno strano magistrato. L’aggancio per la competenza territoriale del capoluogo era nel primo nome della lista, quello di un operaio torinese morto di mesotelioma dopo aver lavorato a lungo a Niederurnen, in Svizzera, la sede principale di Eternit. Il procuratore Raffaele Guariniello era la persona giusta, uno dei pochi giudici a fare certi processi in Italia.

«Guardi che io sono di Frugarolo» ribatte sempre a chi lo definisce «magistrato torinese». C’è molto di Guariniello in questa pignoleria al confine con un narcisismo che spesso gli è stato rimproverato come un peccato capitale. La sostanza è ben altra. Effettivamente nato nel 1941 in questo paese dell’Alessandrino, ha studiato allo storico liceo D’Azeglio di Torino, si è laureato con Norberto Bobbio e Giovanni Conso, e da allora ha scelto di fare carriera su una strada scoscesa e ben poco frequentata. Era in magistratura da appena due anni quando, il 5 agosto 1971, autorizzò sopralluogo e perquisizione negli uffici della real casa Fiat, che generarono il celebre processo sulle schedature dei lavoratori. Vennero le prime inchieste sull’amianto, sulle fabbriche dei tumori, quelle sul doping sportivo.

«Posso mettere a verbale che lei è un rompicoglioni?» La frase, che ha avuto un certo successo, fu pronunciata da Lorenzo Necci, ex ad delle Ferrovie, che nel 1998 versò allo stato un cospicuo obolo per uscire dalla sua indagine sui treni all’amianto. Era già qualche anno che Guariniello si era messo in testa un’idea innovativa. Fare le indagini sulle cosiddette morti bianche usando il metodo tradizionale. Come se fossero casi di cronaca nera, omicidi o rapine. Non si limitò più alla raccolta dei dati, al semplice sopralluogo. Ordinò perquisizioni, sequestrò documenti, fece indagini invasive. A leggerla così sembra l’uovo di Colombo, ma non ci aveva pensato nessuno. E certe volte funzionò, come è accaduto con l’Eternit. Dalle carte è emersa la terribile leggerezza dei vertici dell’azienda, la sottovalutazione del rischio eletta a metodo, sono spuntati manuali della menzogna che insegnavano ai dirigenti come mentire e come nascondere la realtà, un’atroce consapevolezza di quanto si stava facendo e causando.

Il processo è cominciato il 6 aprile 2009, e per tanta gente che ha sempre sofferto in silenzio, aspettando che si accendessero finalmente le luci dei riflettori sul dramma di una città di centinaia di famiglie, è stato quasi una beffa. Quello era il giorno del terremoto dell’Aquila e i media erano impegnati altrove. Sono tornati comunque, perché il dibattimento, che è durato quasi tre anni, aveva dimensioni inedite che lo rendevano un caso unico. Il 10 dicembre 2009, quando si aprì la costituzione delle parti civili, il dato numerico si evidenziò in una coda lunga un chilometro, che durò nove ore. Nessun processo aveva mai messo insieme 2889 richieste di risarcimento danni, ognuna delle quali corrispondeva alla famiglia di una vittima. In quelle nove ore sfilarono gli ultimi trent’anni di queste morti silenziose e infinite, un elenco destinato ad allungarsi ancora e ancora, purtroppo.

La prima sentenza che venne pronunciata non riguardava gli imputati, ma le vittime. «Temo che quanto sto per dire equivalga alla scoperta dell’acqua calda.» Era la mattina del 19 luglio 2010 quando echeggiò in aula la voce di Vittorio Demicheli, direttore della Sanità della Regione Piemonte. La sua premessa era importante quanto l’assunto che seguiva: «A Casale Monferrato si può parlare di epidemia di tumori da amianto. Su 250 casi registrati di questa malattia, uno su cinque, ovvero 50 all’anno, sono in quell’area. Dove ci si ammalerà per almeno altri quindici anni da oggi, questo per la presenza ambientale delle fibre di amianto.» In aula, nessuno ha provveduto a toccare ferro. Lo sanno tutti che è così. Udienza dopo udienza, il dibattimento è diventato una specie di amarcord su una delle più grandi e sottaciute stragi italiane. Hanno sfilato vecchi operai, cittadini, familiari di vittime, politici. Tutti a ricordare come e perché si è arrivati a questo punto, a quasi tremila morti, contando anche le altre filiere italiane di Eternit. Altrettante sono state le vittime inconsapevoli.

Ma l’eredità lasciata dalla produzione di amianto è ancora nell’aria, come le micidiali fibre prodotte dal polverino che si conficcano nella pleura, fino a farla lentamente marcire. E il mesotelioma, uno dei tumori più ostici da combattere. Quell’aria viene respirata ogni giorno, non solo a Casale. Tremila ammalati all’anno in tutta Italia. Ormai muoiono soltanto le vittime «civili», non più gli operai. Ma Casale, provincia di Alessandria, 70 chilometri di distanza da Milano, 65 da Torino, è l’epicentro. Una storia segnata dal profitto contrapposto alla tutela della salute, questo è il pensiero dei magistrati che lavorano con Guariniello.

La sentenza arriva il 13 febbraio 2012. Alle 13.20, in un’aula bunker stipata all’inverosimile, viene pronunciata la prima parola, quel «colpevoli» accolto da sospiri, da singhiozzi trattenuti. Ma l’elenco di nomi e cognomi va avanti per tre lunghe ore, ognuno di essi viene scandito con partecipazione, quasi un omaggio postumo. In quella litania c’è l’enormità di questa vicenda, dello stabilimento Eternit che ha provocato la morte di migliaia di uomini e donne, non importa se lavorassero in fabbrica o vivessero nelle vicinanze. Adesso sappiamo che sono stati uccisi da una condotta dolosa, un modo giuridico per dire cinica e premeditata, decisa da dirigenti che hanno consapevolmente messo il profitto davanti alla salute dei lavoratori e degli abitanti delle città che ospitavano le loro aziende. Il barone belga Louis De Cartier e il magnate svizzero Stephan Schmidheiny, i due proprietari della multinazionale dell’amianto, non sconteranno un solo giorno dei 16 anni di reclusione ai quali sono stati condannati per disastro ambientale doloso e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. Ma era nel conto, non è per questo che sono arrivati qui in 1500 da Casale e da Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli, le altre filiali italiane di Eternit. Neppure per i risarcimenti, che sono stati riconosciuti per un totale di 95 milioni di euro. La gente che si è svegliata all’alba per arrivare da Casale Monferrato chiedeva altro. Voleva giustizia, intesa come riconoscimento della propria storia e delle proprie sofferenze da parte dello stato. E in quell’elenco interminabile sono sfilati i volti delle persone che non ci sono più, un mosaico di dolore che si compone in una storia folle e si spera irripetibile.

«Mio marito era bellissimo» dice Giuseppina, moglie di Renzo Pivetta, che per 30 anni ha confezionato camicie ben lontano dalla fabbrica, e il 1o maggio 2008 stava tagliando l’erba nella sua casa di Terruggia, quando sentì mancargli il fiato. Morì ventisette giorni dopo. «Almeno ha fatto in fretta, si è risparmiato tormenti infiniti.» Accanto a lei c’è un’altra signora che le tiene strette le mani e piange di nascosto. È Maria, la figlia di Luigi Giachero, che faceva la maschera nel vecchio cinema Politeama, poi divenne vigile e quando scoprì di avere il male dentro passò il tempo che gli restava a guardare gli astri dal telescopio sul balcone. «Credo che cercasse un perché nelle stelle, ma se n’è andato senza trovarlo.» C’era Valeria, la figlia di «Pica» Busto, che aveva appena 2 anni quando papà se ne andò per sempre. «Non esiste contropartita» dice la sorella Giuliana «per un vuoto così grande. Ma da oggi è proibito inveire contro il fato. La colpa è di persone che da oggi possiamo definire criminali.» Paolo Liedholm, nipote del grande Nils che allenò Milan e Roma, è qui per la mamma Gabriella, che era nata nel quartiere Ronzone, dove c’era lo stabilimento Eternit, e da giovane giocava a pallavolo sulle strade lastricate dal polverino d’amianto che l’azienda regalava – «generosamente» è scritto nell’atto di donazione – alla città. «Credo che questa sentenza serva soprattutto da monito» dice. «Mai più, non deve accadere mai più.» Non ci sono frasi epiche o da scolpire nel marmo, tra queste persone semplici travolte da un male invisibile, colpevoli solo di essere cresciute nella città segnata da una maledizione portata dagli uomini. Era importante esserci, era importante che qualcuno dicesse che è successo davvero.

Le ultime parole di questa storia non sono nostre. Sono di una persona che non c’è più. Marco Giorcelli aveva appena 51 anni, una moglie, una figlia, tante colline da risalire ancora con la sua bicicletta, dal 1993 dirigeva Il Monferrato, il giornale che è stato la bussola di una comunità segnata da questi anni di lutti infiniti. «Mesotelioma maligno epiteliomorfo. Il verdetto sta lì, in tre parole, così nitide da essere la mia stella di David.» Il suo ultimo editoriale è rimasto nel cassetto per un anno. Lo scrisse subito dopo aver scoperto di essere condannato. È morto il 15 marzo 2012, alle sette del mattino, dopo un anno di sofferenze. Perché si continua a morire, anche dopo una sentenza che ha reso giustizia, almeno nelle aule di tribunale. Ma la Spoon River di questa città è destinata a continuare, come una maledizione decisa da altri, come se essere nati da queste parti, aver respirato quest’aria fosse una condanna destinata prima o poi a diventare esecutiva, nel modo più feroce e doloroso. «Provo pena per gli imputati» scriveva Giorcelli «più che rabbia. Per come hanno negato il senso dell’umanità nel nome del profitto, del potere. Certo, noi di Casale Monferrato chiediamo giustizia. Per i nostri morti, per le nostre famiglie sconquassate come se sul nostro cielo si fosse combattuta, nel xx secolo, un’altra guerra. Lunghissima, estenuante. E senza possibilità di difenderci. Un crimine contro l’umanità.»