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  • Venerdì 23 agosto 2013

L’italiano delle telecronache

Catalogo di pigrizie linguistiche e cliché da calcio in tv («se ci esprimessimo così sul lavoro chi ci ascolta ci chiederebbe se ci ha dato di volta il cervello»)

Tommaso Pellizzari ha raccolto sul Corriere della Sera alcune espressioni tipiche del giornalismo calcistico televisivo, spiegando che questo linguaggio «di assurdità omerica» ha assunto da tempo «un linguaggio formulare tutto suo»: quello che avviene col giornalismo in generale, col giornalismo sportivo succede al cubo. Pellizzari in particolare critica l’uso di particolari vocaboli sopravvissuti solo nel racconto televisivo di una partita di calcio, aggiungendo che «se ci esprimessimo così in famiglia o sul lavoro chi ci ascolta ci chiederebbe se ci ha dato di volta il cervello».

Supercoppa italiana e preliminari di Champions League ci hanno dato la prima rinfrescata. E adesso torna il campionato a completare il ripasso del vocabolario parallelo delle nostre giornate (e serate) di spettatori: quello del calcio parlato. Un vocabolario limitatissimo, spesso surreale e per questo irrinunciabile che ha una precisa e semplicissima modalità di creazione e trasmissione.

IN PRINCIPIO – Tutto comincia con un giornalista che utilizza una determinata parola o un determinato modo di dire, spesso nella convinzione di essere forbito ed elegante. Il calciatore e l’allenatore, in genere (e quasi mai per colpa) sono cresciuti senza mai potere studiare troppo (a differenza, in teoria, dei giornalisti) e quindi senza poter cogliere l’assurdità quando non l’inappropriatezza di un determinato termine. E così lo ripetono a loro volta nelle interviste (o nelle telecronache, per i calciatori che hanno la fortuna di diventare seconde voci), autorizzando gli utilizzatori iniziali e quelli successivi a convincersi che quel modo di esprimersi sia corretto, efficace e pure raffinato. Il risultato finale, di cui si fatica a rendersi conto per la decennale abitudine delle nostre orecchie, è una lingua di assurdità omerica, cioè con un linguaggio formulare tutto suo, fondamentalmente riassumibile in due modalità principali.

DUE GRUPPI – Da un lato l’utilizzo continuo di parole ormai sparite dal linguaggio di tutti i giorni. Se ci esprimessimo così in famiglia o sul lavoro – giornalisti sportivi a parte – chi ci ascolta ci chiederebbe se ci ha dato di volta il cervello. Dall’altro lato, trionfano termini e locuzioni che avrebbero un preciso significato e che, invece, da un momento all’altro vengono usati in modo inspiegabilmente errato. Nonostante questo, l’uso improprio di questi termini viene accolto con una sorta di entusiasmo e replicato all’infinito.

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foto: Jonathan Moscrop – LaPresse