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  • Giovedì 11 luglio 2013

Golpe o no?

Lucio Caracciolo sull'importanza politica di definire quello che è successo in Egitto

CAIRO, EGYPT - JULY 06: Protesters opposed to ousted Egyptian President Mohamed Morsi celebrate in Tahrir Square on July 6, 2013 in Cairo, Egypt. Over 17 people were killed in clashes around the country yesterday with dozens injured as the Egyptian military tries to restore order. Adly Mansour, chief justice of the Supreme Constitutional Court, was sworn in as the interim head of state in ceremony in Cairo in the morning of July 4, the day after Morsi was placed under house arrest by the Egyptian military and the Constitution was suspended. (Photo by Spencer Platt/Getty Images)
CAIRO, EGYPT - JULY 06: Protesters opposed to ousted Egyptian President Mohamed Morsi celebrate in Tahrir Square on July 6, 2013 in Cairo, Egypt. Over 17 people were killed in clashes around the country yesterday with dozens injured as the Egyptian military tries to restore order. Adly Mansour, chief justice of the Supreme Constitutional Court, was sworn in as the interim head of state in ceremony in Cairo in the morning of July 4, the day after Morsi was placed under house arrest by the Egyptian military and the Constitution was suspended. (Photo by Spencer Platt/Getty Images)

Lucio Caracciolo, su Repubblica di oggi, si chiede se quello che è accaduto in Egitto all’inizio di luglio e che ha portato, su iniziativa dell’esercito, alla sospensione della Costituzione e alla deposizione del presidente Morsi – eletto democraticamente un anno fa dopo la caduta di Mubarak – sia oppure no un colpo di stato. E lo fa perché dietro al “nome della cosa” c’è una politica e il modo per capire cosa potrebbe succedere.

Il presidente eletto arrestato e sbattuto in prigione insieme ai leader del suo movimento, i media a lui favorevoli chiusi, l’esercito che spara a man salva sui manifestanti che lo sostengono. Il tutto in una repubblica nata nel 1952 da un putsch militare e di cui le Forze armate hanno sempre occupato le posizioni chiave, costituendosi in uno Stato nello Stato ramificato nel cuore dell’economia e degli affari. Insomma: un golpe. O no?

La definizione dei recenti fatti d’Egitto divide gli animi. Coloro che rifiutano il termine “colpo di Stato”, carico di senso negativo, esaltano la mobilitazione di massa contro il presidente Morsi su cui le Forze armate hanno poggiato il loro intervento. Senza peraltro sottilizzare sulla credibilità dei numeri – decine di milioni di manifestanti – evocati dalla galassia che non ne poteva più del fallimentare esperimento di governo dei Fratelli musulmani. Cifre peraltro riprese tali e quali da gran parte dei media occidentali, anche se parrebbero urtare contro il buon senso e violare le leggi della fisica.

Ma non sottilizziamo: stando a tale scuola di pensiero, se tecnicamente di golpe si è trattato, politicamente è stato riscattato dal consenso del “popolo” – almeno finché un altro “popolo”, quello dei Fratelli, non si è manifestato, certo non in decine di milioni. Se proprio non vogliamo omettere il sostantivo “colpo”, qualifichiamolo almeno con un aggettivo che possa riscattarne la reputazione – “rivoluzionario” o “democratico”. Anche a costo di confezionare un ossimoro. E non formalizziamoci troppo sull’entusiasmo delle petrodittature del Golfo per il “golpe democratico”, certificato dagli annunci della monarchia saudita e satelliti di una pioggia di petrodollari sul Cairo onde evitare che il “loro” Egitto finisca nel baratro.

La disputa semantica intorno all’intervento dei militari per dirimere – ad oggi aggravandolo – il caos politico egiziano non ha nulla di accademico. È strategica. Il nome della cosa implica una politica. E viceversa, la politica è interessata a determinare il nome della cosa per legittimare se stessa. Più in concreto: se il generale Abdel Fattah al-Sisi fosse battezzato golpista dagli Stati Uniti – suo paese di formazione professionale – dovrebbe rinunciare al miliardo e mezzo di dollari che dal 1987 Washington trasferisce ogni anno alle Forze armate egiziane a garanzia della sicurezza di Israele e a beneficio della propria industria degli armamenti.

(Continua a leggere l’articolo di Repubblica)