Atti mancati

Marco ha 33 anni vive a Bologna, fa il giornalista e da anni si trascina un romanzo non finito: le prime pagine del romanzo d'esordio di Matteo Marchesini, tra i 12 finalisti del Premio Strega

di Alessandro Sabbatini - Caffeina

Freud considerava l’atto mancato un errore d’azione; l’incapacità di agire sulla realtà per soddisfare un desiderio. È questa la dinamica su cui Matteo Marchesini costruisce il suo romanzo d’esordio, Atti mancati, pubblicato a marzo da Voland, e tra i dodici finalisti del Premio Strega 2013.

Marco, il protagonista, è un giornalista e scrittore bolognese alle prese con un romanzo a metà, quando la sua vita è stravolta dall’incontro con la sua ex, Lucia. Dopo i dubbi iniziali Marco si fa convincere da Lucia a tornare nei luoghi della loro storia, ripercorrendo il tempo passato assieme, in un vortice di emozioni forti e ricordi felici. Marco ripensa alle occasioni perdute che lo hanno portato a un presente vuoto e asettico e capisce che è arrivato il tempo di riprendersi la sua vita e terminare il suo libro, da troppo tempo in sospeso. In occasione della rinnovata collaborazione tra il Festival Caffeina Cultura e il Premio Strega, pubblichiamo le prime pagine di questo romanzo di formazione, una storia d’amore e amicizia attraversata da una sottile morale senecana: l’importanza di agire per risvegliarsi dal torpore della passività, riprendendo consapevolezza del proprio tempo e le redini della propria vita.

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A un certo punto, senza accorgertene, hai trentatré anni. E non puoi neanche dire di non aver raggiunto, almeno in parte, ciò che volevi. Fai un lavoro che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano. Non ricordi nemmeno più quando ha preso piede in te questa necessità di limare, escludere, cancellare tutto: rapporti, viaggi, imprevisti quotidiani. Sai solo che ora che hai quasi raggiunto l’obiettivo, lisciato ogni contorno, pareggiato ogni asperità, non ricordi più perché l’hai fatto. Ti chiedi per quanto tempo sarà possibile barare scrivendo il tuo articolo giornaliero senza lasciar capire che dietro è stato tolto l’audio dell’esperienza. O forse tu non te ne accorgi, ma lo si è sempre capito: forse ha ragione chi dice che non si può mai barare davvero, neanche scrivendo, e dunque davanti a chi ti legge sui giornali hai l’aria di quei bambini che non vedendo credono di non essere visti. D’altra parte, a barare hai cominciato presto. Hai cominciato presto a credere che le parole corrano parallele alle cose, e che senza conoscere davvero con i sensi, senza scontare col dolore un determinato stato di cose si possa per qualche coincidenza formale, tramite una specie di procedimento algebrico, darne con le parole un equivalente in grado d’ingannare sulla totale inesperienza dei fatti. A forza di tagliare ponti, sei riuscito a rielaborare un passato leggendario in cui attraversi fino in fondo situazioni che nella realtà hai appena sfiorato: ti sei costruito a posteriori un’adolescenza normale, una prima giovinezza decente di compagnie e bravate. E quasi quasi ci credi.
Stamattina mi ha svegliato il giornale. La voce del direttore, col suo forte accento bolognese, mi chiedeva di andare a coprire la consegna del Bolognino d’oro a una mia vecchia conoscenza, Bernardo Pagi. Dovevo fare, ovviamente, “non pura cronaca, ma uno di quei pezzi così narrativi, così tuoi… E poi, Mar- co, almeno stavolta non sarai troppo satirico, o no? Se ben ricordo era un tuo modello…”.
atti mancatiLa parola modello m’infastidisce: un fratello maggiore, vorrei dire. Ma non sarebbe del tutto vero. Il fatto che in apparenza Pagi rifiutasse di esercitare qualunque potere pedagogico non aveva reso per me il suo percorso meno esemplare.
Mi alzo col collo bloccato, la bocca amara e il solito dolore alla caviglia. Forse dovrò operarla. Ma finché sto così, mi piace ripetere a chi mi chiede perché zoppico che ho preso una botta a calcio (vero a metà: erano due tiri in cortile) e che sto ingrassando perché non posso praticare l’unico sport che mi diverte (non falso: ma così lascio credere di avere un passato da calciatore che non ho, e che la caviglia mi permette di non dover dimostrare).
Dunque, quegli articoli miei così narrativi. L’unica narrativa che faccio, ormai: pigiata in un riquadro di giornale, contrabbandata sotto le forme di reportage, commento, pezzo di costume. Siedo un attimo alla scrivania per controllare la mail prima di vestirmi e partire, e mi accorgo che ieri sera ho lasciato aperto il file del romanzo. Cioè del troncone di romanzo sempre ripreso e mai finito, trasferito negli anni su almeno tre computer.
Continuo ad accumulare libri di ogni tipo, scrivo e pubblico saggi, poesie, racconti, filastrocche e storie per bambini: ma questo file, il Romanzo, non smette di trascinarsi. E il problema non è solo la mia fissazione della pagina pulita, il bisogno di risolvere ogni scritto in pochi giorni, pena l’insabbiamento o l’abbandono. È una specie d’inibizione opaca, il sospetto di superare la soglia dell’hybris. Malgrado sappia bene (forse fin troppo bene) dove andare a parare con trama e forma, dopo un po’ che accumulo materiale subentra puntuale la nausea, un cincischiare frustrante e improduttivo; come se tenere insieme la passione dello stile, la vita dei personaggi e i miei sospetti critici sul genere romanzo, mi costasse uno stress insopportabile per il sistema nervoso, che oltre un certo limite collassa.
Meglio chiudere. Mi vesto sommariamente, esco nel freddo marzolino di via Castiglione.