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Il colpo perfetto

Il libro di Niccolò Campriani, medaglia d'oro alle scorse Olimpiadi in uno sport in cui "non puoi pensare a due cose contemporaneamente"

Mondadori ha pubblicato Ricordati di dimenticare la paura di Niccolò Campriani, vincitore di una medaglia d’oro e di una d’argento alle Olimpiadi di Londra nel tiro a segno. Campriani racconta la sua carriera sportiva e la decisione, dopo la delusione alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, di lasciare l’Italia e trasferirsi negli Stati Uniti per un diverso tipo di allenamento e soprattutto di analisi per capire e superare la paura di fallire. Il libro è un’avvincente sintesi di storia sportiva e riflessioni su emozioni, meccanismi e discipline a cui l’atleta è sottoposto nel rapporto con la ricerca del risultato: in questo capitolo, Campriani scrive sulle vittorie in Coppa del mondo e ai Mondiali di Monaco nel 2010, e suo rapporto con lo psicologo Edward Etzel, che lo ha seguito negli Stati Uniti.

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Mi dicono che ho fatto una finale perfetta. Io ho solo sentito che andava tutto bene, che era tutto giusto, che tutto quello che stavo facendo aveva un senso, una sua splendida pienezza. L’ultimo tiro in particolare è stato incredibile, a uno o due decimi di millimetro dalla perfezione matematica.
Qualcosa è cambiato, qui a fort Benning. Se ne accorgono persino i giornalisti. Il giorno dopo sul sito specializzato in tiro a segno c’è un titolo enorme: Campriani, l’incubo è finito. È vero. È proprio così. Più dell’oro in prone vinto in casa dei maestri americani, più della gioia di Petra e dei complimenti di Emmons, più della telefonata serale dei miei da Sesto, mi rendo conto che sono felice per aver vinto la sfida contro me stesso. Una sfida dove l’asticella era stata fissata – da Ed – parecchio in alto.

Quando rivedo il prof, gli racconto come sono andate le cose. Lui ascolta cercando di nascondere la gioia.
Il rapporto fra noi, nonostante i suoi tentativi di tenere le distanze, è andato crescendo in questi mesi, nutrito dalla mia ammirazione e dal suo rispetto per i miei sforzi. Non sono riuscito a trattenermi dal prendere informazioni. Ho chiesto di lui a Gino. E ho avuto risposte confuse. Era un grande tiratore, poi dopo quell’olimpiade vinta, di punto in bianco, ha impacchettato la sua attrezzatura da tiro, messo tutto in cantina e si è dedicato ad altro. Fine della sua carriera di tiratore. Nessuno ha mai capito i reali motivi di quella scelta. Si sa solo che, da quel giorno, Ed non ha mai più preso in mano una carabina: «Le chiavi del poligono le ho io e non me le ha mai chieste» mi ha detto Gino. Si è ritirato. E si è messo a dare una mano agli atleti del campus, con enorme profitto.
«Complimenti, sono molto fiero di te» mi dice Ed. E aggiunge: «Adesso che ti sono più chiare un po’ di cose, possiamo provare ad andare avanti». Crede molto nell’ipnosi, mi spiega, e pensa che ne potrei trarre parecchi vantaggi.
L’ipnosi è molto usata nello sport, specie in discipline come il tiro o il golf, in cui l’aspetto mentale è preminente rispetto a quello fisico. Si tratta di raggiungere uno stato di concentrazione assoluta e profondissima, nel quale affrontare i vari aspetti: si può visualizzare una gara passata per correggerla o futura per impostarla, un singolo tiro per deviarne la traiettoria, un momento preciso per capirlo meglio, si può lavorare sull’autostima, sulla capacità di controllare l’ansia.

Con Ed abbiamo deciso di andare a caccia del tiro perfetto. È un percorso da fare in due. Lui guida, io seguo. Mi fa accomodare sulla poltrona. Mi invita a rallentare il ritmo del respiro. Con calma mi concentro sul calore dei muscoli, uno alla volta, in un ordine ben preciso. Poi penso a una porta. La immagino in lieve penombra, di legno. La schiudo. Dietro ci sono cinque gradini. Ogni gradino un respiro. Lento e calmo. Fino al fondo della piccola scalinata dove c’è una stanza vuota, con dentro solo coscienza e calore. È un posto strano quello, un posto in cui ero già stato migliaia di volte in vita mia senza saperlo, quasi tutte le sere, qualche istante prima di dormire, e tutti i giorni passati al poligono, quando tirare era il mio mezzo di comunicazione con il resto del mondo, con babbo e mamma, con mio fratello e i miei amici.
Ero lì anche a fort Benning, durante la finale di prone. Lì c’è tutto, sono convinto che, se fosse utile e lo volessi cercare, ci troverei anche quel maledetto colpo di Pechino e la commessa della gioielleria. Ma non m’interessa. Non più. Quello che sto cercando qui dentro è altro. Il colpo perfetto. Il gesto automatico e incorruttibile. Assomiglia molto a quello di fort Benning. Lo descrivo a Ed. E lui lo descrive a me. Entrambi sappiamo fin troppo bene di cosa stiamo parlando. Dopo mezz’ora di ricerche e descrizioni ce l’ho davanti, plastico, in tutto il suo splendore. Come se fosse cinema. L’obiettivo è farlo diventare così familiare da poterlo riprodurre in qualunque momento.
E funziona. Lo sperimento a Belgrado dopo qualche settimana, un’altra tappa della coppa del mondo. Nella finale con la carabina ad aria compressa trovo uno di quei cinesi imbattibili che sparano come macchine. Non ci penso. Ho imparato a costruire dighe perfette, ormai. Non penso a vincere, penso solo a riprodurre quel «gesto» o, meglio, a fare in modo che quel gesto si riproduca da sé. E ci riesco. Vinco un altro oro.
Qualcosa è cambiato, sì. Ora ne ho le prove. La medaglia ha un altro peso. Hanno un altro peso i complimenti della squadra e la gioia dei miei. Più che orgoglio provo soddisfazione. È una differenza sostanziale. E, soprattutto, mi sento in pace con me stesso. Una pace interiore che percepisco distintamente adesso, dopo la gara, ma che, se ci penso, arriva da prima, da lontano, forse direttamente dalla casa colonica in campagna o dal poligono di Bibbiena.

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