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  • Martedì 30 aprile 2013

Il “coming out” di Jason Collins

La bellissima lettera con cui un giocatore NBA - il primo atleta professionista statunitense, non solo nel basket - ha detto di essere gay, su Sports Illustrated

dribbles the ball against the Brooklyn Nets at the Barclays Center on November 15, 2012 in the Brooklyn borough of New York City. NOTE TO USER: User expressly acknowledges and agrees that, by downloading and/or using this photograph, user is consenting to the terms and conditions of the Getty Images License Agreement. The Nets defeated the Celtics 102-97.
dribbles the ball against the Brooklyn Nets at the Barclays Center on November 15, 2012 in the Brooklyn borough of New York City. NOTE TO USER: User expressly acknowledges and agrees that, by downloading and/or using this photograph, user is consenting to the terms and conditions of the Getty Images License Agreement. The Nets defeated the Celtics 102-97.

Jason Collins, giocatore di basket dei Washington Wizards nel campionato statunitense NBA, ha detto di essere gay in una lettera pubblicata da Sports Illustrated, diventando così il primo giocatore professionista statunitense in attività – non solo di basket, ma anche di baseball, football americano e hockey – a rivelarlo pubblicamente. Collins ha 34 anni, è nato in California ed è diventato professionista nel 2001, con i New Jersey Nets. È arrivato ai Wizards il 21 febbraio 2013, dopo aver giocato una stagione con i Boston Celtics.

Sono un centro dell’NBA di 34 anni. Sono nero. E sono gay.

Non intendevo essere il primo atleta dichiaratamente gay di un torneo americano professionistico a squadre. Dal momento che lo sono, sono felice di parlarne. Non volevo essere il bambino che alza la mano in classe dicendo: “Sono diverso”. Se fosse per me, qualcuno altro avrebbe già potuto farlo. Nessuno l’ha fatto, ed è per questo che sto alzando la mano. Il mio viaggio alla scoperta di me stesso è iniziato nella mia città natale, Los Angeles, ed è continuato per due campionati della high school, per i quarti di finale e la semifinale del campionato NCAA e per nove volte ai play-off in dodici stagioni NBA.

Ho giocato per sei squadre professioniste e partecipato a due finali NBA. Avete mai sentito parlare di un gioco di società chiamato Tre Gradi di Separazione di Jason Collins? Se hai giocato nel torneo e non sono mai stato uno dei tuoi compagni di squadra, sono stato di sicuro un compagno dei tuoi compagni di squadra. O uno dei compagni dei tuoi compagni di squadra.

Ora sono un giocatore libero da vincoli, letteralmente e figurativamente. Ho raggiunto quello stato invidiabile della vita in cui posso fare più o meno quello che voglio. E ciò che voglio è continuare a giocare a basket. Amo ancora questo gioco e ho ancora qualcosa da offrire. I miei allenatori e i miei compagni di squadra lo sanno. Allo stesso tempo, voglio essere vero, autentico e sincero.

Perché lo sto rivelando ora? Beh, ho iniziato a pensarci nel 2011 durante il “lockout” dei giocatori dell’NBA. Io sono una creatura della routine. Quando finisce il campionato mi dedico alla preparazione e agli allenamenti, per essere pronto per la gara inaugurale della stagione successiva. Ma lo sciopero ha stravolto le mie abitudini e mi ha costretto a confrontarmi con chi sono veramente e cosa voglio veramente. Con il ritardo dell’inizio della stagione, ho continuato ad allenarmi. Ma mi mancava la distrazione del gioco.

La prima persona a cui ho rivelato questa cosa è stata mia zia Teri, che fa il giudice della Corte Suprema a San Francisco. La sua reazione mi ha sorpreso. “Sapevo che eri gay da anni”, ha detto. Da quel momento mi sono sentito bene nella mia pelle. Davanti a lei per la prima volta ho ignorato il “bottone della censura”. Lei mi ha dato sostegno. Il sollievo che ho provato era dolce. Immaginate di essere in un forno, in fase di cottura. Alcuni di noi conoscono e accettano la propria sessualità immediatamente, altri hanno bisogno di più tempo per cucinarla. Io lo so bene – l’ho tenuta nel forno per 33 anni.

Quando ero più giovane uscivo con le donne. Sono anche stato fidanzato. Pensavo di dover vivere in un certo modo. Pensavo di avere bisogno di sposare una donna e crescere dei bambini con lei. Continuavo a ripetermi che il cielo fosse rosso, ma ho sempre saputo che era blu. Ho realizzato di aver bisogno di dirlo pubblicamente quando Joe Kennedy, il mio vecchio compagno di stanza a Stanford, oggi deputato in Massachusetts, mi aveva appena detto di aver sfilato al Gay Pride di Boston del 2012. Raramente sono invidioso degli altri, ma ascoltare quello che Joe aveva fatto mi ha fatto sentire pieno di invidia. Ero orgoglioso di lui, per la sua partecipazione, ma arrabbiato perché in quanto omosessuale non avrei potuto incoraggiare il mio caro amico come spettatore. Se mi fossero state fatte delle domande, avrei architettato dell mezze verità. Che peccato dover mentire mentre si celebra l’orgoglio. Voglio fare la cosa giusta e non nascondermi più. Voglio marciare per la tolleranza, l’accettazione e la comprensione. Voglio prendere una posizione e dire: “Anche io”.

Il recente attentato alla maratona di Boston ha rafforzato l’idea che non avrei dovuto aspettare le circostanze perfette per dirlo. Le cose possono cambiare in un istante, quindi perché non vivere veramente? Quando qualche settimana fa ho detto a Joe di essere gay, lui è stato grato per essermi fidato di lui. Mi ha chiesto di unirmi a lui nel 2013. Marceremo insieme l’8 giugno.

Nessuno vuole vivere nella paura. Ho sempre avuto paura di dire la cosa sbagliata. Non dormo bene. Non l’ho mai fatto. Ma ogni volta che lo dico a un’altra persona, mi sento più forte e dormo un po’ più profondamente. Ci vuole moltissima energia per custodire un così grande segreto. Ho sopportato anni di miseria e ho passato lunghi periodi a vivere in una bugia. Ero certo che il mio mondo sarebbe caduto a pezzi se qualcuno l’avesse saputo. Eppure quando ho riconosciuto la mia sessualità mi sono sentito “completo” per la prima volta. Avevo ancora lo stesso senso dell’umorismo, le stesse stravaganze: i miei amici sono rimasti dalla mia parte.mo

Che ci crediate o no, la mia famiglia ha subito shock più grandi. Nel 1978 i miei genitori si aspettavano solo un bambino. Io. Quando sono nato (per la prima volta), i dottori si congratularono con mia madre per il suo bambino sano, di quasi 2,6 chilogrammi. “Aspettate!”, disse un’infermiera. “Ne sta uscendo un altro!”. L’altro, che arrivò 8 minuti dopo e che pesava quasi un etto di più di me, era Jarron. Jarron mi ha seguito sempre da allora, a Stanford e all’NBA, e io, come fratello un po’ più grande, mi sono sempre preso cura di lui.

Ho avuto un’infanzia felice nella periferia di Los Angeles. I nostri genitori ci hanno insegnato ad apprezzare la storia e l’arte di quel luogo, e soprattutto la Motown. A me e a Jarron non fu permesso di ascoltare la musica rap fino a quando compimmo 12 anni. Dopo il nostro 12esimo compleanno, mi precipitai a comprare Quik Is The Name, il disco di “DJ Quik”. Ne memorizzai ogni singola parola. Fu in questo periodo che cominciai a notare le sottili differenze tra Jarron e me. La nostra gemellanza non era più sincronizzata come prima. Non riuscivo a essere attratto dalle ragazze.

Mi sento fortunato per avere riconosciuto i miei gusti sessuali. Anche se ho resistito agli impulsi fino al liceo, sapevo che quando sarei stato pronto avrei avuto qualcuno a cui rivolgermi: mio zio Mark a New York. Sapevo che avrei potuto confidarmi con lui senza essere giudicato, ed è quello che ho fatto la scorsa estate. Zio Mark è gay. Lui e il suo compagno hanno una relazione stabile da sempre. Un ragazzo giovane confuso, come me, non avrebbe potuto trovare un modello migliore di amore e compassione.

Ho fatto coming out con mio fratello solo l’estate scorsa. Gliel’ho confidato una mattina mentre facevamo colazione, e la sua reazione è stata completamente differente da quella di zia Teri. Rimase assolutamente sbalordito. Non l’aveva mai sospettato. Alla faccia della telepatia tra gemelli. Ma quella sera, quando cenammo insieme, mi dimostrò tutto il suo amore fraterno. Per la prima volta nella nostra vita, voleva essere coinvolto e voleva proteggermi.

La mia nonna materna era molto preoccupata della mia volontà di fare coming out. Lei è cresciuta nella Louisiana rurale ed è stata testimone degli orrori della segregazione. Durante gli anni del movimento per i diritti civili vide compiere gesti di grandissimo coraggio nel bel mezzo delle peggiori bruttezze dell’umanità. Era preoccupata che rivelare la verità mi avrebbe esposto al pregiudizio e all’odio. Io le ho spiegato che il mio coming out è preventivo. Facendo così, non avrei dovuto vivere sotto la minaccia di essere scoperto e “bandito”. L’annuncio avrebbe dovuto essere mio, non di TMZ.

La parte più dura di tutto questo è la consapevolezza che tutta la mia famiglia subirà le conseguenze della mia scelta. Ma i miei parenti mi hanno ripetuto che, fintanto che io sarò felice, loro lo saranno per me. Vedo mio fratello e gli amici del college mettere su famiglia. Cambiare i pannolini è un lavoro molto impegnativo, ma i bambini portano così tanta gioia. Vado pazzo per i miei nipoti, e non vedo l’ora di iniziare a mettere su una mia famiglia.

Provengo da una famiglia molto unita. I miei genitori mi hanno insegnato i valori cristiani. Loro insegnavano alla scuola domenicale religiosa e a me piaceva dargli una mano. Prendo gli insegnamenti di Gesù seriamente, in particolare quelli che parlano di tolleranza e comprensione. Durante i viaggi di famiglia i miei genitori vollero sempre farci vedere nuove cose, religiose e culturali. Nello Utah visitammo il tempio mormone di Salt Lake. Ad Atlanta, la casa di Martin Luther King. Questa precoce esposizione alla diversità mi ha reso un ragazzo che riesce ad accettare tutti in maniera incondizionata.

Sto imparando ad abbracciare il puzzle che c’è dentro di me. Dopo che a febbraio sono stato venduto dai Boston Celtics ai Washington Wizards, sono andato al memoriale di Martin Luther King, a Washington. Mi sono sentito ispirato, ma anche umiliato. Onoro il fatto di essere afro-americano e le difficoltà del passato, che ancora hanno i loro strascichi oggi. Ma non lascio che il colore della mia pelle mi definisca più di quanto possa farlo il mio orientamento sessuale. Non voglio essere etichettato, e non posso lasciare che le etichette di qualcun altro vengano utilizzate per definirmi.

Sul campo ho accettato un’etichetta che mi è stata affibbiata: “il professionista dei professionisti”. L’ho ottenuta grazie al mio coraggio e all’impegno che ho sempre dimostrato verso i miei compagni di squadra. Accetto le sfide, e se serve faccio fallo – questa è stata la mia forza. Nel corso della stagione 2004-2005 ho guidato questa speciale classifica della NBA, facendo ben 322 falli personali. Entro in campo sapendo che ho sei falli da spendere. Ho impostato il mio gioco sui miei 213 centimetri di altezza e 116 chili di peso, sapendo di dover marcare ragazzi come Jason Kidd, John Wall e Paul Pierce. Mi sacrifico anche per gli altri giocatori. Mi prendo cura dei miei compagni di squadra come farei con un fratello minore.

Non ho paura di affrontare alcun avversario. Amo giocare contro i migliori. Anche se Shaquille O’Neal è un giocatore della Hall of Fame, non mi sono mai sottratto alla sfida di frenare la sua cattiveria agonistica (nota per Shaq: le mie simulazioni non hanno nulla a che vedere con il fatto di essere gay). Vado in campo con il paradenti e con i polsi incerottati. Forza, dammi un pugno, io mi rialzerò. Mi spiace dirlo, e non ne sono orgoglioso, ma una volta ho fatto un fallo così duro che il mio avversario è dovuto uscire dal campo in barella.

Insomma, sono il contrario dello stereotipo che molti hanno dei gay, e questo è il motivo per cui credo che moltissimi di giocatori rimarranno sconvolti dal mio coming out: quel ragazzo è gay? Io sono sempre stato un giocatore aggressivo, anche al liceo. Sono così “fisico” per dimostrare che essere gay non ti rende più morbido? E chi lo può sapere? Questa è una domanda a cui solo uno psicologo può rispondere. Le mie motivazioni, come il mio contributo in campo, non sono cose che finiscono nelle statistiche delle partite, di cui onestamente non mi importa. L’unica cosa che conta è vincere. Voglio essere considerato un giocatore di squadra.

La lealtà alla mia squadra è la vera ragione per cui non ho fatto coming out prima. Quando lo scorso luglio firmai un contratto con Boston, decisi di impegnarmi al 100 per cento e non permettere che la mia vita personale diventasse una distrazione al mio lavoro. Ero pronto a dirlo alla stampa, ma dovevo aspettare fino alla fine della stagione.

Un mio compagno del college provò a convincermi a fare coming out allora. Ma non potevo. Il mio unico piccolo gesto di solidarietà fu scegliere la maglia con il numero 98, prima con i Celtics e poi con gli Wizards. Quel numero ha un significato molto importante per la comunità gay. Uno dei più famigerati crimini dettati dall’odio contro i gay si verificò nel 1998. Matthew Shepard, uno studente dell’Università del Wyoming, venne rapito, torturato e frustato mentre era legato a una staccionata. Morì cinque giorni dopo essere stato ritrovato. Lo stesso anno fu fondato il Trevor Project. Questa fantastica organizzazione garantisce interventi in situazioni di crisi e cerca di prevenire i suicidi di ragazzi alle prese con i problemi legati alla loro identità sessuale. Credetemi, io la conosco quella fatica. Ho combattuto contro pensieri insani. Quando ho scelto quella maglia, la numero 98, stavo facendo una dichiarazione a me stesso, alla mia famiglia e ai miei amici.

Nascondere la mia sessualità è diventato quasi insopportabile a marzo, quando i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti hanno ascoltato le argomentazioni a favore e contro i matrimoni gay. A meno di tre miglia dal mio appartamento, nove giudici parlavano anche della mia felicità e del mio futuro. Ecco la mia possibilità di essere ascoltato, eppure io non poteva dire nulla. Non volevo rispondere alle domande che tutti mi avrebbero fatto e non volevo attirare l’attenzione su di me. Non mentre stavo ancora giocando.

Sono felice di avere fatto coming out nel 2013 e non nel 2003. Il clima è cambiato; l’opinione pubblica è cambiata. Eppure abbiamo ancora molta strada da fare. Tutti hanno paura dell’ignoto, ma la maggior parte di noi non vuole tornare ai tempi in cui le minoranze erano apertamente discriminate. Sono rimasto impressionato dalle dichiarazioni a favore dei gay degli atleti professionisti eterosessuali Chris Kluwe e Brendon Ayanbadejo. Più persone si schiereranno a favore, meglio sarà, che siano eterosessuali o gay. Se ne iniziò a parlare quando il presidente Barack Obama, durante il suo secondo discorso di insediamento, menzionò gli scontri di Stonewall del 1969 che lanciarono il movimento dei diritti dei gay. Il fatto di parlarne può passare anche dagli insegnanti delle scuole elementari che incoraggiano i loro studenti ad accettare le diversità.

Per la sua natura, la mia doppia vita mi ha impedito di avvicinarmi davvero ai miei compagni di squadra. All’inizio della mia carriera mi impegnai molto per riuscire a comportarmi come un eterosessuale, ma con il tempo mi sono sentito sempre più a mio agio con la maschera che avevo scelto di indossare, ed è stato tutto molto meno faticoso. Nei giorni scorsi, però, c’erano pochissime cose che separavano “maschera sì, maschera no”. Personalmente non mi piace soffermarmi sulla vita privata di altre persone, e spero che l’allenatore e i giocatori mi dimostreranno lo stesso rispetto. Quando sono con la mia squadra penso solo a lavorare duramente e a vincere le partite. Un buon compagno di squadra ti sostiene sempre, al di là di quello che succede.

Mi è stato chiesto come reagiranno gli altri giocatori al mio coming out. La risposta è semplice: non ne ho idea. Sono un pragmatico. Spero il meglio, ma sono pronto anche al peggio. La più grande preoccupazione sembra essere il fatto che i giocatori gay non saprebbero comportarsi in modo professionale negli spogliatoi. Credetemi, ho fatto un sacco di docce in 12 stagioni nella NBA. Il mio comportamento non era un problema prima e non lo sarà ora. Non cambierà. Rispetterò ancora la regola per cui “quello che accade nello spogliatoio rimane nello spogliatoio”. Sarò ancora un modello di discrezione.

Nel momento in cui scrivo questa lettera, non ho ancora fatto coming out con nessuno nel mondo della NBA. Non sono al corrente di quello che gli altri giocatori dicono di me. Forse Mike Miller, mio vecchio compagno di squadra a Memphis, ricorderà il tempo in cui passavo a trovarlo nella sua casa in Florida, e dirà: “Sono contento di essere stato suo compagno di squadra, e gli ho venduto un cane”. Spero che i giocatori si scambieranno tra loro storie come questa. Magari parleranno del mio carattere e del tipo di persona che sono.

Per quanto riguarda la reazione dei miei tifosi, non mi importa se mi fischieranno. Lo hanno fatto anche prima. Ci sono stati dei momenti in cui io stesso avrei voluto fischiarmi. Ma un sacco di cattivi sentimenti possono essere curati con la vittoria.

Sono un veterano e mi sono guadagnato negli anni il diritto di essere ascoltato. Darò il buon esempio e dimostrerò che i giocatori gay non sono differenti da quelli eterosessuali. Anche se non sono la persona più forte in quella stanza, parlerò quando vedrò qualcosa che non è giusto. E cercherò di far ridere tutti.

Non ho mai cercato di stare sotto i riflettori. Anche se sto facendo coming out con tutto il mondo, ho intenzione di custodire la mia vita privata. Sto facendo questa dichiarazione in parte per tenere a bada chiacchiere e incomprensioni. Spero che i tifosi mi rispetteranno per avere alzato la mano. E spero che i miei compagni di squadra si ricorderanno che non sono mai stato un tipo che se ne frega e che ti sbatte le cose in faccia. Tutto quello che dovete sapere è che sono single. Ma non c’è nessun bisogno di approfondire questa cosa.

Guardate cosa è successo nel mondo dei militari quando la regola del “Don’t Ask, Don’t Tell” è stata eliminata. I critici di questo cambiamento erano sicuri che la presenza di militari apertamente gay avrebbe devastato il morale e distrutto la civiltà. Ma un nuovo studio realizzato da studiosi provenienti da ogni ramo delle forze armate, eccetto la Guardia Costiera, ha concluso che “la coesione non è diminuita dopo la nuova politica di apertura che è stata adottata”. La maggiore apertura e onestà che ha seguito l’eliminazione della regola del “Don’t Ask, Don’t Tell” sembra avere promosso più comprensione e rispetto.

Lo stesso vale nel mondo dello sport. Doc Rivers, il mio allenatore ai Celtics, dice: “Se volete andare di fretta, andateci da soli. Se volete andare più lontano, allora ci andremo in gruppo”. Voglio che le persone si muovano e vadano avanti insieme.

La trasparenza non può disarmare completamente il pregiudizio, ma è un buon punto di partenza. Tutto arriva dall’educazione che si è ricevuta. Mi siederò accanto a tutti quei giocatori che si sentono a disagio rispetto al mio coming out. Essere gay non è una scelta. È un cammino difficile, a volte solitario. Alcuni ex giocatori, come Tim Hardaway che ha detto “Odio i gay” (e poi è diventato sostenitore dei diritti dei gay), hanno alimentato l’omofobia. Tim è un adulto. Ha diritto di esprimere la sua opinione. Dio benedica l’America. Ma se mi ritroverò di fronte a un giocatore intollerante, preparerò una difesa durissima contro di lui. E poi andrò avanti.

Il massimo che si può fare è lottare per ciò in cui si crede. E io sono molto più felice da quando ho fatto coming out con i miei amici e la mia famiglia. Essere genuino e onesto mi rende felice.

Sono felice di non dovermi più nascondere e concentrarmi per la mia 13esima stagione in NBA. Sono andato a correre sulle montagne di Santa Monica indossando una canottiera da 11 chili, insieme a Shadow, il pastore tedesco che mi ha regalato Mike Miller. Nella lega professionistica più sei anziano e più devi farti trovare in forma. Nella prossima stagione molti occhi saranno puntati su di me. Questo mi motiva solo a lavorare ancora più duramente.

Alcune persone sostengono di non avere mai incontrato una persona gay. Ma la teoria dei Tre Gradi di Separazione di Jason Collins dice che nessun giocatore NBA può sostenerlo ancora. Il basket professionistico è una famiglia. E praticamente ogni famiglia che conosco ha un fratello, una sorella o un cugino che è gay. Nella famiglia dell’NBA, io sono solo l’unico che ha fatto coming out.