Fare politica costa, spiegano sempre i partiti. Costano gli affitti delle sezioni, e dei teatri e delle sale in cui tenere le iniziative politiche, costano i telefoni e i manifesti, costano i viaggi, le campagne di propaganda, costano gli spot, costano gli uffici per organizzare l’attività di un partito, costano i dipendenti. Per pagare queste cose i partiti italiani hanno tre fonti principali di sostentamento economico: le quote versate dai propri iscritti e dai propri dirigenti (in diversi partiti i parlamentari versano parte del proprio stipendio al partito, e devono pagare una cifra al momento della candidatura), le donazioni ricevute (sia direttamente che indirettamente, si pensi per esempio agli stand delle feste dell’Unità), e i soldi pubblici assegnati per legge: il famigerato “finanziamento pubblico dei partiti”, oggi di nuovo molto discusso.
Il finanziamento pubblico dei partiti arrivò in Italia nel 1974 con una legge promossa dalla Democrazia Cristiana – e votata da tutti i partiti presenti in parlamento, PCI compreso, ed escluso il PLI – allo scopo, teoricamente, di ridurre il rischio di tentativi di corruzione. Si disse, infatti, che limitare ai fondi dei privati il sostentamento dei partiti avrebbe avuto possibili conseguenze negative. Che si fa, per esempio, se una o più persone ricchissime mettono le loro finanze a disposizione di un partito? Come si mette il sistema politico al riparo di quello che può accadere se un grande gruppo industriale o una lobby o anche un ente pubblico si mette a finanziare massicciamente uno più partiti per ottenerne in cambio dei vantaggi? O, simile e inverso, se un partito non ha fondi e deve trovare il modo di ottenere contributi privati?
La legge, approvata dopo alcuni scandali allo scopo di limitare la corruzione, obbligava i partiti che ricevevano il denaro pubblico a dare conto delle donazioni ricevute in bilanci trasparenti e a non ricevere donazioni da enti e strutture di proprietà pubblica (come l’ENI, per esempio) ma non ottenne il suo scopo. Nel 1976 l’industria statunitense Lockheed ammise di aver pagato tangenti a politici italiani per vendere i propri aerei militari. Sempre in quegli anni attorno al banchiere Michele Sindona emerse un grosso e torbido giro di corruzione e tangenti legato alla Democrazia Cristiana. Nel 1978 un referendum proposto dai Radicali non raggiunse il quorum per pochi punti ma raccolse il 97 per cento dei voti per l’abolizione del finanziamento pubblico. Nel 1993, dopo le inchieste di “Tangentopoli”, un nuovo referendum ottenne il quorum e con il 90,3 per cento dei Sì il finanziamento pubblico ai partiti venne abrogato.
Dopo il referendum
Le leggi in vigore vennero quindi aggiustate e modificate in modo tale da eliminare, teoricamente, il finanziamento pubblico: ripristinandolo però sotto altre forme. Una vecchia legge sui rimborsi elettorali fu prima allargata e poi rimpiazzata nel 1999 da una nuova che, a cominciare dalle elezioni politiche del 2001, destina dei fondi a tutte le liste che superano l’1 per cento dei voti, per tutta la durata della legislatura. Nel 2006 la legge venne ulteriormente modificata e attribuì il finanziamento per cinque anni dal voto, anche se la legislatura dovesse finire prima. Parliamo di molti soldi: 468 milioni di euro per ogni legislatura, quasi mezzo miliardo di denaro pubblico.
Le moltiplicazioni del finanziamento
La legislatura iniziata nel 2006, quella con le elezioni vinte di pochissimo dal centrosinistra, finì nel 2008. I partiti che ottennero almeno l’1 per cento dei voti (quindi anche alcuni che non sono in parlamento, avendo ottenuto meno voti della soglia di sbarramento per eleggere parlamentari) continuano però a percepire i “rimborsi” per tutto il 2011, e a quelli si sommano i “rimborsi” relativi alle elezioni politiche del 2008, quelle che hanno dato inizio alla legislatura in corso. Questa è la prima sovrapposizione paradossale: per non essere “finanziamento pubblico dei partiti” devono essere rimborsi elettorali, ma questo rende priva di senso la loro assegnazione in anni non elettorali, e doppiamente privo di senso il loro raddoppio. Poi c’è un’altra questione.
Nel 2008 i due principali partiti politici, Popolo della Libertà e Partito Democratico, erano appena nati dalla fusione di quattro partiti politici: Alleanza Nazionale e Forza Italia, il primo, Democratici di Sinistra e Margherita, il secondo. Quindi succede che Popolo della Libertà e Partito Democratico ricevano i rimborsi elettorali per le elezioni 2008 mentre Alleanza Nazionale, Forza Italia, Democratici di Sinistra e Margherita continuavano a percepire i rimborsi per le elezioni del 2006. Questi partiti, infatti, formalmente esistono ancora: non fanno attività politica – alcuni sono diventati amministrativamente delle fondazioni – ma hanno sedi, uffici, dipendenti, patrimoni. E soldi.
Che cosa è cambiato durante il governo Monti
Con l’insediamento del governo Monti, si disse che il Parlamento avrebbe dovuto approfittare di quella fase politica per risolvere alcune questioni: la legge elettorale, le riforme istituzionali, i costi della politica. Sul fronte del finanziamento pubblico ai partiti, dopo lunghe discussioni – e molte sedute parlamentari con pochi presenti in aula – i partiti hanno raggiunto un’intesa su un testo non condiviso soltanto da Italia dei Valori e Lega Nord, che giustificavano il disaccordo chiedendo l’eliminazione completa dei rimborsi piuttosto che la riduzione. A luglio del 2012 è stata infine approvata la legge n. 96/2012 (PD e PdL favorevoli, IdV contraria, Lega astenuta) che ha dimezzato i contributi pubblici per l’anno 2012 – da 182 a 91 milioni – e stabilito delle riduzioni per gli anni successivi. I fondi risparmiati con le riduzioni del 2012 e del 2013, circa 165 milioni di euro, sono stati destinati alle amministrazioni delle regioni colpite dai terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna).
Nella prossima pagina: le altre modifiche approvate durante il governo Monti,
e come funziona il finanziamento pubblico ai partiti nel mondo.