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  • Venerdì 13 aprile 2012

Il viaggio di Andrea Antonello

Un libro racconta il viaggio americano di un ragazzo autistico di 18 anni insieme con suo padre

di Fulvio Ervas

Questo romanzo narra la storia vera del lungo viaggio attraverso Stati Uniti e America latina di Franco Antonello con il figlio Andrea nell’estate 2010.
Andrea ha appena compiuto diciotto anni ed è stato diagnosticato come autistico all’età di tre.
Franco Antonello ha raccontato la sua avventura a Fulvio Ervas nel corso di un dialogo durato più di un anno. Fulvio Ervas ne ha tratto un romanzo che intreccia vicende ed emozioni autentiche con fantasia e arte narrativa. Immagini del viaggio e della vita di Andrea si trovano all’indirizzo internet www.andreaantonello.it o sul suo profilo facebook.

(Video: Franco Antonello alle Invasioni Barbariche)

Per certi viaggi non si parte mai quando si parte. Si parte prima.
A volte molto prima.
Quindici anni fa stavo tranquillo sul treno della vita, comodo, con i miei cari, le cose che conoscevo. All’improvviso Andrea mi scuote, mi rovescia le tasche, cambia le serrature delle porte. Tutto si confonde.
Sono bastate poche parole: “Suo figlio probabilmente è autistico”.
La prima reazione è stata di incredulità: non è possibile, deve essere una diagnosi sbagliata. Poi ho cominciato a mettere insieme piccole cose, elementi che prima ritenevo insignificanti, e sbagliavo.
Allora scoppia un uragano, due uragani, sette tifoni.
Da quel momento sei nella bufera.
Dopo la diagnosi, sono uscito, sono entrato in un bar e ho chiesto un bicchiere d’acqua, naturale.
Vuole dell’altro? La barista deve aver notato la mia immobilità.
“Lei sa qualcosa dell’autismo?”
“No”.
“Nemmeno io”.
Scrutavo il liquido, bevevo lentamente, come se l’acqua avesse potuto lavare i pensieri, trascinare ai reni il problema e dai reni fuori, via, lontano da me. Non funziona così.
E come funziona?, avevo chiesto a Barnard. In paese tutti chiamavano ‘Barnard’ il medico di famiglia, e io con loro, per via delle sue fisime sul mal di cuore, sulle coronarie e altre faccende che non mi interessavano affatto. Quando stai bene, sta bene ogni singolo pezzo del corpo, cuore compreso.
“Funziona che la vita sta tutta sotto una grande curva a campana, con al centro disturbi comuni e ai lati stravaganze d’ogni sorta. La vita è diluita nel mezzo e troppo densa ai lati”.
“Non capisco”.
“La vita è imperfetta, ma ha una sua forza”.

Aveva ragione. La biologia ha una sua forza e fa crescere anche i figli affetti da autismo.
C’è chi dice che vivere con un figlio autistico significa sottostare a una specie di tirannia. Mi viene da ridere al pensiero di cosa accadrebbe al mondo se cadesse sotto il controllo di Andrea.
Per prima cosa le settimane avrebbero un colore. Nella settimana del rosso via libera al commercio di carote, arance, pomodori. Sovvenzioni solo a questi produttori e blocco totale alla circolazione di camion con broccoli, verze e piselli. Ma quando arriva la settimana verde i negozi si riempiono delle verdure prima vietate, le casse d’arance vengono immediatamente rispedite in Sicilia e le carote infilate, una a una, nel terreno. Naturalmente nel punto esatto da cui erano state tolte, che non si possono mica mettere carote provenienti dalla Francia su terra ferrarese.
Non ci sarebbe mai una settimana viola, peccato per i fan di prugne e melanzane.
Non potrebbe esistere il mezzo pieno o il mezzo vuoto, dilemma capace di tormentare i migliori intelletti: bottiglie e altri contenitori dovrebbero essere o vuoti o pieni e le penne o tutte con la punta dentro o tutte con la punta fuori, mai metà e metà, che poi una si rovina e una no. È un rischio che sarà evitato.
Sarebbe opportuno non indossare maglie o maglioni con la cerniera e, sbadatamente, tenerla leggermente aperta. Per favore, cerniere o aperte o chiuse. Inutile cavillare sempre se faccia caldo o freddo. Un po’ di decisione non guasta.
Nessuno si creda di poter mangiare una pizza tagliandola a fette, diciamo partendo da un punto qualsiasi e staccandone uno spicchio a piacimento: prima si mangia il bianco della mozzarella, poi il verde del basilico e alla fine, ma solo alla fine, la pasta con la salsa di pomodoro.
Ci sarebbe trecentossessantacinque volte all’anno la giornata del cioccolato. Imposizione questa, forse, non del tutto sgradevole.
Chiunque sia in possesso di un termostato, o si consideri tale, non si aspetti benevolenza. O spenti o aperti al massimo: le mezze stagioni sono una rovina.
I campanili verranno dotati di un distributore automatico di bolle di sapone, ogni venerdì bolle di sapone a distesa per annunciare il fine settimana e ogni lunedì per festeggiarne l’inizio, fuochi d’artificio a capodanno, nei solstizi ed equinozi e ogni qual volta le casse lo permettano.

Una tirannide con le idee chiare.
Un tiranno fragile, bisognoso di libertà. Per questo lo mandiamo a scuola da solo. Sono i suoi venti minuti d’aria, dieci all’andata e dieci al ritorno. Non avete paura?, ci chiedono. Sì, ovviamente. Tutti i giorni. Però Andrea ha un tale sorriso, quando mette lo zaino in spalla e quando poi torna a casa, da compensare tutte le preoccupazioni. Perché essere liberi non è solo respirare e avere un cuore che batte, non basta.
Certo, la libertà non è mai gratis: abbiamo dovuto firmare assunzioni di responsabilità, un ragazzo autistico che va a scuola da solo è un bel problema, si capisce: per gli insegnanti, per i vigili, per la cittadinanza, per tutti gli automobilisti europei e i turisti lituani che passano di qua.

Era una sera di fine maggio, non riuscivo a dormire. Ricordavo un urlo di Andrea qualche giorno prima, dopo uno dei tanti inghippi: gironzolava per casa, ma terribilmente inquieto, gli ho chiesto cosa c’è, ho insistito, e lui stranamente mi ha afferrato per le spalle. Mi ha fissato negli occhi come mai prima. Ha spalancato la bocca lasciando uscire un urlo che pareva aver attraversato un’infinita distesa di giorni. Mi è sembrato dicesse, mi pare di averlo sentito: non ci riesco, non ci riesco, non ci riesco…
E ha richiamato immagini del passato: un incidente, la moto che vola e poi l’urlo di Andrea a terra da qualche parte, davanti a me, la gente che accorre e mi impedisce di vederlo, la gamba destra tutta sghemba, la morfina, è un ragazzo autistico, le due ambulanze, lasciateci assieme, poi due letti d’ospedale, l’uno accanto all’altro. Ce la siamo cavata, però quell’urlo di Andrea ogni tanto riemerge dai sogni, forse non era nemmeno dolore, forse era quel suo mondo strano che aveva trovato un’unica voce. Qualcosa gridava libertà e usciva raspando i polmoni e la gola.
Mi sono alzato, ho acceso il televisore, l’ho spento. Ho cincischiato con la radio. Ho aperto l’armadietto dove tengo le cartine stradali, le guide di viaggio. Ho steso sul tappeto una vecchia mappa del mondo, ho svuotato la mente ridisegnando i confini, Croazia, Slovacchia, Macedonia, Moldavia…

La mattina dopo, molto presto, Andrea era già sveglio e si aggirava in pigiama. Seguiva il perimetro della tavola, sfiorava il divano, controllava la finestra del salotto. Ho cercato le ciabatte, senza trovarle. Ho capito che erano state allineate perfettamente sotto la sedia dello studio. A piedi nudi ho calpestato una briciola di carta, poi un’altra, finché sul tavolo ho visto la pila di minutissimi pezzi, quel che restava della mia vecchia mappa. Frammenti infinitesimali di mondo che sarebbero finiti tra la carta da riciclare.
Andre, Andre, ho mormorato. Nessuno scatto d’ira. Niente.
Lui aveva quello sguardo un po’ malinconico. Dai, il mondo cambia in fretta, e poi dovevo immaginarlo: spesso i giornali e le riviste vengono sminuzzati, Andrea lavora con una precisione invidiabile, come se lasciasse frammenti di parole a invisibili pettirossi che volano nelle nostre stanze.
Fra un mese finisce la scuola, cominciano le vacanze. I miei amici manderanno i figli ai centri estivi, troveranno l’offerta di una bella settimana verde sulle montagne casentinesi, li affideranno ai nonni, li porteranno con loro in campeggio, li lasceranno in un pezzo di giardino a dare calci a un pallone. Fanno bene, i ragazzi hanno bisogno di svuotare la testa e di giocare.
A me toccheranno le solite complicazioni: chi sta con Andrea, dove?, cosa gli facciamo fare?, quella cosa sarà adatta a lui? Turni macchinosi, riempitivi, acrobazie per arrivare a settembre.
Ci si stanca, è umano.
Ogni volta che ti scontri con le difficoltà, ogni volta che ti rimbocchi le maniche per risolverle, è
come comperare un biglietto, un piccolo biglietto che ti porti alla fermata successiva.
No, quest’anno no. Se deve essere fatica, che sia per un’autentica avventura.
Siamo sempre in viaggio, anche quando aspettiamo che Andrea torni da scuola, quando lo rincorriamo tra la gente.
È arrivato il momento di prendere il largo. Adesso dobbiamo perderci.
L’idea di un grande viaggio ha cominciato a lavorare dentro, in silenzio. Come un virus. Senza manifestazioni evidenti. Non sentivo il bisogno di un progetto dettagliato. Per Andrea le ore di ogni singolo giorno sono sempre un imprevisto: sarà così anche per me, e andrà come deve andare.
Una mattina sono andato incontro ad Andrea che tornava da scuola, con il suo passo veloce. L’ho visto arrivare e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto fare una vacanza speciale. Lui s’è lasciato distrarre dai panni stesi nel cortile di una casa. È partito di corsa e ha cominciato a raggrumare le lenzuola, spostare le mollette, raddrizzare i calzini.

“Ce ne andiamo lontano?” chiedevo.
Mi ha guardato di sfuggita, e ha sorriso. “Andrea, andiamo in America?”
“America bella”.
Lì, davanti a quei panni, riordinati come solo Andrea sa fare, mi sono detto: io e Andrea attraverseremo tutte le Americhe possibili e immaginabili, due o tre, quelle che incontreremo. Ce ne andremo a zonzo tutta l’estate, come esploratori.
Stazioni di servizio, rotoli di asfalto, pasti veloci, gente simpatica, gente che scappa, gente ai lati della strada che ci saluta. Via, uno o due mesi, non ci fermeremo finché non saremo stanchi, di qualcosa ci stancheremo, oppure ci troviamo benissimo, magari è un gran posto per uno come Andrea con padre al seguito, sempre che non ci dicano: altolà, che siete venuti a fare? A portare scompiglio?, e che scompiglio portiamo, solo i pezzi di carta che Andrea lascia ovunque e le pance che gli piace toccare e i baci che distribuisce generosamente: va bene, staremo attenti, misurati, non daremo fastidio, America, cerca di essere tollerante!

“Sopporti Andrea con autismo” così mi ha scritto. Volevo capire come avesse preso quest’idea del viaggio e ci siamo messi, assieme alla mamma, davanti al computer. Da solo con me non scrive, è abituato alla presenza della mamma.
La sua risposta mi ha spiazzato.
Sopporterò Andrea, già, che altro può credere? Non preoccuparti, gli ho detto, anche tu mi dovrai sopportare.
Gli ho anche chiesto cosa avrebbe preferito: un viaggio tranquillo o un viaggio pieno di feste? “Tranquillo e feste” mi ha scritto. Tutti e due. Grande, Andre. Grande. Sarà il nostro viaggio. Strampalato, vitale, un poco avventato. Un poco curativo.
Guardavo con stupore, come sempre, Andrea che batteva i tasti, quel portare il pugno al cuore prima di scrivere una lettera. Pugno al cuore, lettera, lettera, lettera, pugno al cuore, parola.
Il mondo intero entra dentro Andrea come un sasso in discesa, come una valanga. Andrea non ha difese, non ha barriere, assorbe tutto come una spugna e basta guardarlo per capire che ha un’intimità diversa, tutta sua, con la realtà. A voce si esprime in modo sconnesso, pronuncia parole secche: casa, in giro, quello verde. Le sue risposte suonano meccaniche, riprendono una parte della domanda.
Quello che lascia trapelare è concentrato: è l’alchimista che distilla poche parole ma con una grande eco. Bisogna solo imparare a sentire.

Con il computer riesce a scrivere frasi compiute. Ha imparato a farlo dopo anni di esercizio, con l’aiuto di una persona che lo guidava.
Non sono mancati quelli che mi esprimevano la loro perplessità per questo sistema e per molto tempo non ho creduto nemmeno io a quello che vedevo. Immaginavo che le frasi che comparivano sullo schermo fossero frutto dell’interferenza della persona che gli stava accanto. Ma poi, con mia grande sorpresa, Andrea ha acquistato una sua autonomia, adesso scrive con il computer senza che nessuno guidi il suo braccio e dice la sua sui più svariati argomenti: autismo, vita, amore. Conservo tutte le sue pagine, da quelle più strampalate e inconcludenti a quelle più toccanti. Sono lettere inviate dal suo mondo.

Ho deciso, all’improvviso, la data di partenza: 6 luglio. Il punto zero, l’origine. Mi sarebbe piaciuto decollare il 4 luglio, festa dell’Indipendenza, ma non è stato possibile. Così partiremo a indipendenza conquistata, che forse è più sicuro.
Un viaggio? Ah, no!, hanno detto subito insegnanti e altri genitori, le persone autistiche sono a loro agio solo in situazioni prevedibili, amano la regolarità delle consuetudini, le persone autistiche non tollerano i cambiamenti e numerose altre obiezioni. Che altro dovevo aspettarmi? È comprensibile, normale, forse ero io a essere troppo insensato. Così sono andato a consulto dai medici che hanno in cura Andrea, e non mi sono stati di conforto.
“Quindi sarebbe meglio che lo tenessi a casa”.
“Proprio a casa… Faccia una vacanza rilassante, se può farvi piacere. Il paese è pieno di posti tranquilli”.
Per esempio?, chiedo e lì ti rendi conto che non bisogna mai pretendere troppa precisione dai medici.
“Jesolo”.
“La spiaggia è molto affollata…”
“Vada in una località di montagna”.
“Del tipo?”
“Le Dolomiti…”
Li ho guardati, i dottori. Con rispetto, certo. Non posso però dimenticare che Andrea, sulla propria pelle, ha i segni di cure d’ogni tipo. Che viaggi, a tale scopo, ne ha fatti in lungo e in largo. Con i chilometri percorsi da casa nostra a Milano, Genova, Svizzera, Modena, Bologna, Siena, le corse in Puglia, potremmo fare il giro del pianeta. Andrea ha già conosciuto metà del mondo attraverso le cure: metodi tedeschi, americani, francesi. Medici tradizionali, cure sperimentali, cure spirituali. Ci siamo sempre fidati e abbiamo accettato suggerimenti, aiuti, consigli. Guardando avanti. Senza pregiudizi. Ora mettiamo in conto un altro tipo di cura. Sento che funzionerà. Saremo, per tre mesi, come l’aria.

Gli amici più vicini hanno capito al volo che non stavo parlando di vacanze, stavo parlando di libertà.
“Ma cosa vai a fare?”
“A cercare il bruco blu”.
Sapevano che Andrea aveva perso il suo pupazzo preferito, a forma di bruco blu, proprio nel periodo in cui c’era stata comunicata la diagnosi. Anche a me piacciono quei corpi elastici, certi colori, l’ostinata determinazione, la voracità, gli equilibrismi sui bordi di foglie e steli, sospesi nel vuoto, sotto terra.
“Ma lo ritroverete, il bruco blu?”
“Ci proviamo”.
Li ho visti spalancare gli occhi tutti insieme.
Hanno cominciato a friggere, a chiedere dove, come e quando.
Ascoltandoli, ho immaginato le prime tessere del percorso. Tagliare l’America: da costa a costa, in moto, poi giù giù, o forse su, chi può dirlo?
Del ritorno, ecco, non mi veniva in mente niente, come se Andrea avesse il potere di farmi restare in viaggio per sempre.
Qualche paura affiorava. Eccome.

Ero sdraiato sul letto dopo una giornata piovosa, in cui Andrea era stato molto agitato. Mi è sembrato che dovessimo entrare finalmente nello spirito del viaggio, con le chiacchiere non si parte affatto. Ho preso Andrea e gli ho detto: dobbiamo fare un po’ di allenamento per il nostro viaggio.
“Il viaggio, papà”.
“Sei pronto?”
“Sì”.
“Non mi farai disperare?”
“Stai sempre in pace”.

Abbiamo cominciato a fare lunghi giri con la nostra moto, gli dicevo: Stringiti!, come se tu fossi in America, perché in America bisogna tenersi stretti per bene, ci sono gli uragani e anche i tornado e lui quasi mi soffoca con quella forza che ha. Abbiamo percorso bei tratti di strada, Andrea sempre artigliato, lo sentivo attento, non gli sfuggiva un movimento, e come sempre non perdeva un dettaglio della strada. Per dove si va, Andre? Di là fino in fondo, papà. Sicuro e preciso come tre navigatori satellitari. Salire, scendere, fermarsi ai distributori, fare benzina, mangiare qualcosa, perché adesso i distributori imitano l’America e ci puoi passare la mattina o venire persino all’ora dell’aperitivo. Siamo saliti verso la montagna, mi raccomando mettiti il casco, e dovrò controllare, perché non lo chiude mai. Qualche volta Andrea, quando scendeva dalla moto, filava via senza aspettare, non facevo in tempo a togliermi il casco che era sparito. Attenzione Andre, dicevo, occhio sempre a papà.
“A chi l’occhio?”
“A papà”.
Indicavo le auto della polizia, i lampeggianti, abbiamo imitato le sirene, abbiamo sparato con le dita a finti coyote, in un passo alpino. È pieno di coyote in certi passi alpini. È stata la nostra esercitazione antincendio, il nostro modo di diventare una piccola, ma unita, squadra. Capirsi al volo, cercare di avere un’accettabile coordinazione. Poi, la sera, indigestione di film e filmati sull’America, perché volevo che memorizzasse sfondi, dettagli, perché non sbarcasse sulla luna senza sapere quali pietre avrebbe incontrato.
“John Wayne chi è?” “John Wayne bello”. “No bello! È un cowboy”. Rideva.
Tutto bene, mi dicevo.
E adesso, Andre, provo a dirti che strada faremo: Miami, svoltiamo a sinistra verso Key West, attraverseremo la Florida e poi Alabama, Mississippi, Louisiana e arriveremo fino a Los… a Los…
“Lospedale”.
“No, l’ospedale, salame, Los Angeles! E poi? Cosa facciamo se siamo stanchi a Los Angeles?”
“Stanchi papà”.
“Saremo stanchi?”
“Sì”.
Coast to coast, un classico. I classici sono rassicuranti, altrimenti che classici sarebbero? Avrei prenotato solamente una motocicletta e un albergo a Miami.

Ci siamo ritrovati tutti assieme per i saluti: io, la mamma, il figlio più piccolo e Andrea. Per preparare questo distacco.
C’era anche Filippo, il nostro cane. Non poteva mancare: Andrea, nel suo primo giorno in casa, gli aveva dato un caloroso benvenuto gettandolo dalla finestra. Filippo aveva due mesi e nessuna intenzione di imparare a volare.
Ho guardato Andrea e scritto una frase al computer: “Ciao, allora tra poco si parte”.
Lui, stranamente d’impeto, ha risposto: “Ci divertiamo grazie papà”.

SAI QUAL È L’UNICA MIA PAURA? SE CI PERDIAMO NON CI TROVEREMO PIU’. COSA NE PENSI?
Sto vicino a papà
E SE TI PERDI, E NON MI VEDI PIU’, COSA FAI?
Muoio
NON È CHE MUORI SUBITO. PRIMA DI MORIRE COSA FARESTI?
Guardo in giro
E SE NON MI VEDI PER TANTO TEMPO… POI…
Chiamo papà
MA SE CI SIAMO PERSI ED IO NON ARRIVO, VIENE LA NOTTE… COSA FAI?
Dormo seduto al bar e aspetto
BENE. SAI QUAL È UN’ALTRA COSA CHE DEVI FARE? APPENA VEDI UN POLIZIOTTO TI APPICCICHI VICINO E NON LO MOLLI PIU’. CAPITO?
Si va bene
E COSA GLI DICI?
Il papà scappato
DEVI DIRE “LOST” CHE IN INGLESE SIGNIFICA CHE TI SEI PERSO. E SE PARLANO SPAGNOLO DEVI DIRE “PERDIDO”… OK?
Perdido
SEI PRONTO AD OGNI AVVENTURA? DORMIRE IN GIRO, MANGIARE QUELLO CHE TROVIAMO E ADATTARSI A TUTTO?
Andrea pronto
C’È QUALCOSA CHE VUOI CHIEDERMI O SAPERE PRIMA DI PARTIRE?
Se papà contento
MOLTISSIMO, NON VEDO L’ORA. NEANCH’IO HO MAI FATTO UN VIAGGIO COSÌ…
Siamo viaggiatori avventurosi
CERTO. HAI PAURA DI QUALCOSA?
No
Gli ho chiesto di salutare il fratello.

Stai in pace senza frate

E anche la mamma.

Ciao mamma cara i baci ti do.

Eravamo tutti commossi. Come l’equipaggio di una missione lunare. Ci sentivamo un poco astronauti. Chissà se ci eravamo allenati abbastanza. Mi chiedevo se l’America avesse più o meno gravità di qui, se ci saremmo sentiti più leggeri o più pesanti.

Poco prima della partenza mi ha assalito un’improvvisa trepidazione: sono corso alla scrivania, ho cercato nei cassetti le copie degli scritti di Andrea. Con le forbici ho tagliato le parti più belle e quelle che mi hanno colpito, forte. Ho deciso che li porterò con me, assieme a qualche post-it con i consigli degli amici sui luoghi da non perdere.
Un viaggio di carta, di carte.
Ho trascorso l’ultima sera da solo, cercando di riepilogare il possibile. Devono bastare due zaini e la borsa con le tute per la moto: ho calcolato il giusto numero di mutande tenendo conto del tasso di lavanderie per chilometro quadrato, mal che vada ci appoggeremo sui ruvidi jeans, nessuno è mai morto abraso per questo.
Dal momento che non c’è una formula per conoscere l’adeguato numero di calzini li ho dimezzati, anche se è vero che i calzini sporchi rendono l’umanità più sola, magari siamo in un punto difficile del percorso, chiediamo se andare per di là o per di qua, qualcuno s’avvicina, sviene per le emissioni e rimaniamo bloccati sul più bello.
Ho dovuto dimezzare anche i jeans rispetto a quelli previsti dalla mamma, perché le donne hanno un meraviglioso senso pratico, e non ti fanno dimenticare nulla, però concepiscono i bagagli come la borsa di Mary Poppins e preferiscono sei paia di jeans al navigatore satellitare. Le magliette non sarebbero mai troppe, sì, ho preso la bacchetta magica di Andrea, cosa ci devi fare con una bacchetta magica?, gli avevo chiesto, bacchetta magica, bacchetta magica, mi aveva convinto, un po’ di attenzione unita alla magia può essere utile, ok i giubbotti, le ciabatte, salto di palo in frasca, dall’alto al basso, l’importante è che ci sia tutto il necessario, bagnoschiuma, spazzolini, macchina fotografica, cellulare e computer, passaporto, carte di credito e qualche soldo. Stop, non ci sta più niente. Quello che manca lo compreremo per strada.
Ho pensato, scivolando nel sonno, al senso di questo viaggio. Sentivo, nel giudizio degli altri, che forse lo percepivano come una sorta di smargiassata, una cavalcata a briglie sciolte. Poteva essere.
E se invece fosse Andrea a portarmi con sé? Nella misteriosa dinamica di certe partenze, vai a capire che cosa si muove dentro, tra la pancia e il cervello. Vai a capirlo…

Se ti abbraccio non aver paura è uscito in libreria il 12 aprile, pubblicato da Marcos y Marcos.