Itabolario: Italiano (1867)

Massimo Arcangeli ha raccolto 150 storie dell'Italia unita, una per ogni anno: Itabolario. L'Italia unita in 150 parole (Carocci editore)

di Massimo Arcangeli

1867. Italiano (s. m.)

«Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo». È l’inizio delle Confessioni di un ottuagenario, meglio note come Le confessioni di un italiano; nel 1867 appaiono per la prima volta, a sei anni dalla morte di Nievo, presso l’editore fiorentino Le Monnier. Nel romanzo sono ben 69 le attestazioni della parola “italiano” (otto delle quali a significare però l’idioma nazionale). I nostri tradizionali difetti, quando non siano semplicemente sottratti al giudizio di valore, o trasformati in virtù – l’ascoliano cancro della retorica, che Prezzolini avrebbe poi segnato pesantemente a dito anche nella sua declinazione pubblica («In Italia […] i deputati sono cinquecento retori, i discorsi politici vaniloqui, ideologie, fraseologie: Prezzolini, 1904, p. 3), diventa positiva eloquenza che ci accomuna ai latini –, o ammessi quasi controvoglia («Non sempre a torto fummo tacciati noi Italiani di dissimulazione, d’adulazione, e d’eccessivo rispetto alle opinioni e alle forze individuali»), vengono sostituiti dai loro esatti contrari; il servilismo untuoso, il carattere imbelle, la pulcinellesca mancanza di serietà si convertono in “superba indole”, “combattività” (quella dell’«anima romana, fatta per comandare anche dagli infimi posti»), «naturale antipatia per le burattinate».

Il 1867 è anche l’anno della pubblicazione delle memorie, sempre postume, di Massimo d’Azeglio (I miei ricordi, Barbèra, Firenze), che aveva iniziato a stenderle nel 1863. L’opera, alla sua morte (1866), era rimasta incompiuta; è la figlia a curarne l’edizione fiorentina, «rivista da un amico stretto di d’Azeglio, il quale aggiunse vari capitoli che non erano inclusi nel manoscritto originale –, nonché dall’editore che spesso ne alterò il linguaggio per motivi stilistici e moralistici» (Patriarca, 2010, p. 39n). Interrogandosi nell’Origine e scopo dell’opera sui più «pericolosi nemici» del popolo italiano, e scartata la facile ipotesi di ravvisarvi i tratti dei “tedeschi” (l’occupante austriaco), lo scrittore e patriota torinese fa sedere sul banco degli accusati proprio i suoi (e nostri) connazionali: «[H]anno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; perché pensano a poter riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna prima che si riformino loro». La questione, così com’è posta, non è riassumibile nei termini della famosa frase (“Ora che l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani”), mai scritta né pronunciata da d’Azeglio, che indicava nella “costruzione” di un popolo nuovo, unico o intimamente coeso, la strada da intraprendere dopo il raggiungimento dell’unità; più che “fare gli italiani” si trattava di forgiarne il carattere e di instillarvi determinazione, “forza morale” e un alto senso del dovere: «riformarne la mentalità e il comportamento come cittadini, rigenerarli e renderli degni membri della loro nuova patria» (Patriarca, 2010, p. 40), anche linguistica («la lingua in Italia sarà quello che sapranno essere gli Italiani»: Capponi, 1869, p. 682); sottrarli una buona volta, osserva d’Azeglio, alle croniche, “orientaleggianti” e perniciose mollezze di una «sfiancata razza latina» e agli effetti anestetizzanti del “dolce far niente”. L’espressione compariva già in un articolo pubblicato da Federico Confalonieri sul “Conciliatore” (27 giugno 1819); ritornando su un libro francese trattato in due precedenti numeri della rivista, il Confalonieri l’aveva ripresa nella traduzione di un passo dell’opera in cui l’autore (Louis Reynier) aveva polemicamente opposto il culto maschio dei “bellicosi” Celti e Germani, che garantiva il paradiso ai morti in battaglia, al «dolce far niente d’una eterna contemplazione che poteva piacer di vantaggio ai popoli ammolliti non già dal clima ma dalle cattive loro istituzioni» (nell’originale si leggeva «dolce far niente d’une éternelle contemplation, qui pouvait plaire davantage à des peuples amollis, non par le climat, mais par leurs mauvaises institutions»: De l’économie publique et rurale des Celtes, des Germains et des autres peuples du nord et du centre de l’Europe, Paschoud, Genève 1818, p. 229). Se il padre autentico (o quasi) dell’ozio è quel «gran scappafatica» (sempre d’Azeglio) che è il dubbio, l’ozio è il padre dei vizi, notoriamente, soprattutto italiani. Mezzo secolo più tardi la questione diventa di scottante attualità, non coinvolgendo il solo d’Azeglio. Nel 1868 la Reale Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Modena bandisce un concorso il cui tema è «la ricerca delle cause e degli effetti dell’ozio in Italia, e le iniziative di carattere morale per ridurlo» (Patriarca, 2010, p. 54); vi partecipano Carlo Lozzi e Dino Carina, autori di due importanti studi sull’argomento (Lozzi, 1870-71; Carina, 1871). Nel 1869, in un noto saggio, Francesco De Sanctis ravvisa le nefaste conseguenze della spossatezza morale guicciardiniana «in quella sonnolenza […] che i nostri vincitori con immortale scherno trasportarono ne’ loro vocabolarii e chiamarono il dolce far niente» (De Sanctis, 1869, p. 234).

Ipocrisia e furbesca equidistanza («quello stare in sull’ambiguo e tenersi nel mezzo e lasciarsi dietro l’uscita»: ivi, p. 224), verbosità parolaia, sentimentalismo e sdolcinatezza, teatralità e gesticolare smodato, temperamento allegro o buffonesco, pigra indolenza mista a estenuazione, mancanza di spina dorsale (quando non effeminatezza: OMOSESSUALE [1950]) e scarsa attitudine alle imprese militari, inclinazione alla piaggeria e all’obbedienza, individualismo e refrattarietà al bene pubblico. Il catalogo allestibile dei molti vizi che, specialmente dall’età illuministica in avanti, ci sono stati rimproverati farebbe invidia a quello delle conquiste femminili del Don Giovanni mozartiano, snocciolate dal servo Leporello, e potrebbe essere facilmente arricchito di altri, ben riconoscibili tipi italiani: familisti, campanilisti (BURINO [1908]) e provinciali, arrivisti, attendisti e opportunisti (TRASFORMISMO [1882]), spacconi, caciaroni e pasticcioni, avidi e calcolatori, vendicativi e rancorosi, trasandati e avvezzi «a vivere in mezzo al sudiciume» (Prezzolini, 1910/1974, p. 327), superstiziosi e baciapile, materialisti e gaudenti, sospesi, incoscienti o irrisolti (VITELLONE [1953]), gattopardeschi o retrogradi, inadempienti o fannulloni, degenerati o immorali, mafiosi o corrotti, campioni di clientelismo e fautori dello Stato assistenziale, protettivi verso i figli e ricambiati prontamente da mammoni e bamboccioni (MAMMA [1957]). A completare il ritratto dell’italiano doc, nei suoi connotati più riconoscibilmente stereotipici, la nomea di grande mangiatore di PIZZA [1889] e pastasciutta (spaghetti e maccheroni), il cicisbeismo e la maestria nell’arte della seduzione o dell’abbordaggio (PAPPAGALLO [1934]), l’immancabile famiglia – meglio se numerosa – da mantenere («La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: Ho famiglia»: Longanesi, 1947, p. 260), l’attività di cicerone o venditore di souvenir, suonatore d’organetti e mandolini, lustrascarpe o albergatore (Sacchetti, 1971, p. 193), l’appartenenza all’élite dei soliti dritti o alla moltitudine dei poveri fessi (FESSO [1920]) e la fedeltà al mito, che il governo italiano e le forze alleate nutrirono di nuova linfa dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 (cfr. Focardi, 2001), di un’intera nazione composta di buoni cristiani: «gli “italiani brava gente”, un popolo buono, umano, fondamentalmente non guastato dal fascismo e dalla sua vergognosa politica razzista, e anzi vittima della stessa guerra» (Patriarca, 2010, p. 208).

Bibliografia
– CAPPONI G. (1869), Fatti relativi alla storia della nostra lingua, in “Nuova antologia di scienze, lettere ed arti”, vol. XI, pp. 665-82.
– CARINA D. (1871), Dell’ozio in Italia. Osservazioni, Gherardi, Forlì (3a ed.; 1a ed. 1870).
– DE SANCTIS F. (1869), L’uomo del Guicciardini, in “Nuova antologia di scienze, lettere ed arti”, vol. XII, pp. 217-35.
– FOCARDI F. (2001), La memoria della guerra e il mito del bravo italiano. Origine e affermazione di un autoritratto collettivo, in “Italia contemporanea”, LIII, pp. 393-9.
– LONGANESI L. (1947), Parliamo dell’elefante (Frammenti di un diario), Longanesi, Milano.
– LOZZI L. (1870-71), Dell’ozio in Italia, 2 voll., Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino.
– OCCHINI B. (a cura di) (1971), Italia e civiltà, Volpe, Roma.
– PATRIARCA S. (2010), Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Roma-Bari.
– PREZZOLINI G. (1904), Le due Italie, in “Il Regno”, n. 26, 22 maggio, pp. 3-4.
– PREZZOLINI G. (1910), Ventiquattr’ore in Italia, in “La Voce”, 1° settembre, poi in Id., «La Voce» 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, a cura e con la collaborazione di E. Gentile e V. Scheiwiller, Rusconi, Milano 1974, pp. 326-8.
– SACCHETTI E. (1944), Gli italiani e questa guerra, in “Italia e civiltà”, 8 aprile, poi in Occhini (1971), pp. 189-94.