La storia di Wiera Gran

Un nuovo libro sulla cantante del ghetto di Varsavia accusata di aver collaborato con la Gestapo

Nel momento culminante della violenza nazista, Wiera Gran cantava canzoni d’amore nel ghetto di Varsavia. La sua bellezza attirava al Café Sztuka molti spettatori, che la ascoltavano cantare di tempi più felici. Tracy McNicoll ha raccontato la sua storia su Newsweek, in occasione della pubblicazione di un libro (“Wiera Gran, l’accusée“). È morta nel 2007 a Parigi, consumata dall’odio e dalla paura, intrappolata nel buio e nella sporcizia della sua casa. Aveva scritto frasi e parole su quasi tutte le superfici disponibili nel suo opprimente appartamento del sedicesimo arrondissement, devastata dalla paranoia ma ancora determinata a difendere la propria reputazione. Nel corridoio una scritta fatta con uno spesso pennarello rosso diceva: «Aiuto! La cricca di Szpilman e Polanski vuole uccidermi! AIUTO!»

Wiera Gran era ebrea, supravvissuta alla distruzione del ghetto di Varsavia, ed è stata oggetto, per tutta la vita, di un secondo tipo di persecuzione.

La fama di Wiera Gran, ora oggetto di un controverso nuovo libro pubblicato in polacco e francese era da tempo svanita. In molti però si ricordano di chi la accompagnava al piano, in quelle serate al Café Sztuka: Wladyslaw Szpilman, protagonista del film biografico Il pianista di Roman Polanski, del 2002. Gran e Szpilman suonarono allo Sztuka insieme per più di un anno.

Entrambi riuscirono a scappare dal ghetto, unici sopravvissuti delle rispettive famiglie. Nel 1946, però, Szpilman pubblicò un libro di memorie che omette del tutto il nome di Gran. Szpilman diventò una leggenda, mentre Gran fu per sempre perseguitata, ovunque andasse a vivere o a cantare – dalla Polonia a Israele alla Francia, e perfino in Venezuela – da fumose voci e dicerie che la accusavano di aver collaborato con la Gestapo. Le sue soddisfazioni professionali (ha duettato con Charles Aznavour e cantato alla Carnegie Hall) furono messe in ombra dalle accuse di essere stata una sorta di spia. Nel 1971 il suo concerto in Israele venne annullato perché alcuni manifestanti avevano annunciato che si sarebbero presentati all’esibizione vestiti con le divise a strisce dei campi di concentramento.

Gran era stata processata dopo la guerra ma nessun tribunale l’ha mai riconosciuta colpevole, né in Polonia né in Israele. Le voci però continuarono a riemergere per tutta la sua vita. Alla sua morte sono state ritrovate nel suo appartamento centinaia di copie dei verdetti di non colpevolezza dei suoi processi, impilate accuratamente.

Agata Tuszynska, autrice del libro su Gran, e lei stessa figlia di una sopravvissuta del ghetto di Varsavia, ci ha messo un po’ a riuscire ad avvicinarsi a Gran, che negli ultimi anni della sua vita trattava gli sconosciuti con estrema diffidenza. Dopo tre anni di tentativi, però, a prevalere è stata l’urgenza di Gran di parlare e ristabilire la (sua) verità sui fatti di quel periodo, e Tuszynska è stata accolta nel suo mondo dominato dalle paure.

Gran era convinta che nelle sue lampade si nascondessero delle telecamere e dormiva con un coltello, un martello e un cacciavite sotto il cuscino. Ed era spesso sgradevole, ma quando raccontava la sua storia ribadendo la propria innocenza, lo faceva con una lucidità che non poteva lasciare indifferenti.

Il progetto di Tuszynska è di ricostruire gli eventi attraverso i racconti di Gran, ma anche attraverso archivi documentari, dichiarazioni di testimoni e interviste con gli storici e i sopravvissuti del ghetto di Varsavia. Tuszynska insiste sul fatto che il suo libro non vuole essere una biografia sbilanciata sul personaggio di Gran, ma che intende ricostruire i fatti il più oggettivamente possibile. La voce della scrittrice nel libro si fa sentire, e se coglie Gran in contraddizione, o la sorprende a mentire, gliene chiede conto come fa con gli altri testimoni intervistati.

L’oggetto del libro di Tuszynska non è nemmeno Szpilman, che è morto nel 2000. Gran però fu distrutta dal modo in cui Szpilman la cancellò dai suoi ricordi e dalla sua esperienza e il libro di questo rende conto. Nel libro Gran accusa a sua volta Szpilman di aver aiutato i nazisti, raccontando di averlo visto all’alba, la stessa mattina in cui lei fuggì dal ghetto, mentre radunava ebrei per la deportazione con un cappello della Polizia ebraica, proteggendosi le mani da pianista. In queste accuse risiede l’oggetto delle polemiche che hanno accompagnato l’uscita del libro in Polonia, lo scorso ottobre. Il figlio di Szpilman ha pubblicamente minacciato una querela.

Tuszynska, però, nel libro non dà rilevanza alle accuse di Gran a Szpilman. Al contrario, cerca prove a sostegno delle accuse e ammette pacificamente di non averne trovate. Insiste però sul fatto che il comportamento di Szpilman nei confronti di Gran è stato il primo gesto a far precipitare la donna nella nevrosi. Quando Gran si rivolse a lui per un lavoro in radio subito dopo la guerra, il pianista fu il primo a dirle che era una sospettata, fu il primo ad allontanarla.

In ogni caso Tuszynska spiega che l’argomento centrale del suo libro non è nessuno dei personaggi citati:

L’eroina del mio libro è la memoria, non Wiera Gran. La memoria, il modo in cui Gran ricorda di quel periodo, e il modo in cui gli altri si ricordano di lei, il modo in cui ciascuno si ricorda della propria vita e del proprio passato e di quello degli altri, e come tutto questo non sia che un’eco di ciò che è veramente successo. Dov’è allora la verità? Forse la verità non esiste affatto.