Che cos’è un nerd?

Le prime sei pagine di «Storia naturale del nerd», appena uscito per Isbn

di Benjamin Nugent

Sulla pagina di Wikipedia, consultata stamattina, c’è scritto che «per definizione, lo stereotipo o archetipo del nerd descrive un individuo che preferisce coltivare interessi intellettuali a discapito di altri interessi, utili in contesti sociali, quali la comunicazione, la moda e la cura della forma fisica».

Sembra una definizione piuttosto precisa, e invece non lo è.
Immaginate di aver organizzato una festa, e tra gli invitati c’è un critico d’arte che si presenta in canottiera e pantaloni dozzinali, si versa sei dita di Jameson, flirta con vostra figlia ancora adolescente, va in bagno e fa la pipì con la porta aperta.
Ecco: si può senz’altro affermare che quest’uomo è un intellettuale socialmente inetto che non ha la più pallida idea di cosa siano la moda e la cura della forma fisica. Ma non si può certo dire che il suo sia un tipico comportamento da nerd. Mettiamo che avete da poco conosciuto una ragazza che lavora nel campo della grafica. Questa ragazza viene a casa vostra per la prima volta e per tre ore di fila vi parla degli impulsi suicidi che la assalgono da quando ha abbandonato il corso di specializzazione postlaurea. Poi guardando il vostro poster di Klimt osserva che è la tipica cosa che si trova appesa alla parete di «un pivellino al primo anno di università»: anche lei è un’intellettuale socialmente inetta.
Ma non si comporta da nerd. In altre parole, il problema dell’attuale definizione di Wikipedia è che l’essenza del concetto di nerd non sta nell’intellettualismo o nell’inettitudine sociale.

A mio avviso esistono fondamentalmente due macrocategorie di nerd: la prima, per la stragrande maggioranza composta da soggetti di sesso maschile, comprende individui che esprimono il proprio intellettualismo in modo quasi meccanico, e la cui inettitudine sociale ha qualcosa di altrettanto meccanico. Questi nerd danno l’impressione, non sempre sgradevole, di essere simili a macchine. E ciò perché:
1) Nutrono una passione per attività tecnicamente sofisticate che escludono il coinvolgimento emotivo o fisico, il sesso, il cibo, la bellezza (la maggior parte delle attività che appassionano i non-nerd – la pallacanestro, il violino, il sesso, il surf, la recitazione, il lavoro a maglia, la decorazione d’interni, la degustazione di vini ecc. – si basa invece su uno di questi presupposti).
2) Parlano un inglese standard privo di connotazioni gergali.
3) Tendono a evitare lo scontro e il coinvolgimento sul piano fisico ed emotivo.
4) Preferiscono un tipo di comunicazione logica e razionale a forme di comunicazione o di pensiero non verbali e non razionali.
5) Usano la tecnologia per lavoro o per divertimento e la amano molto più di quanto la ami la media delle persone.

Questo vuol dire forse che la suddetta tipologia di persone è formata da robot umani? Certo che no.
Brian Wilson non ama il mare. «Ho paura dell’acqua» risponde a chi gli chiede se pratica il surf. Un giornalista, dopo averlo intervistato, ha detto che la sua «personalità alla Rain Man» dà un po’ l’idea della «voce nei messaggi telefonici registrati». Wilson è californiano, di Hawthorne, una località a dieci minuti dall’oceano pacifico, e ciò rende la sua idrofobia ancora più strabiliante. La madre, Audree, ha sempre sostenuto che, prima ancora che imparasse a parlare, Brian era già in grado di canticchiare la melodia dell’inno dei marines, e che anche la sua capacità di suonare vari strumenti musicali è un talento che si è manifestato in tenera età. Dennis, il fratello minore, lo convinse a scrivere una canzone su un nuovo passatempo dei giovanissimi, e fu così che Brian compose Surfin, il primo successo dei fratelli Wilson, che presto avrebbero dato vita ai Beach Boys. Le canzoni di Brian sono affreschi in musica che parlano di un’America senza tempo, fatta di ragazzi atletici pieni di macchine e di fidanzate. Verso la metà degli anni sessanta, mentre gli altri componenti dei Beach Boys erano impegnati in un tour in Asia, Brian si chiuse in studio con dei musicisti e registrò «Pet Sounds», usando bottiglie di Coca-Cola come strumenti a percussione, registrando in una stanza dal pavimento coperto di sabbia per ottenere il sound giusto, scrivendo le partiture e lasciando ad altri il compito di comporre i testi. Più la gente credeva nel mondo di fantasia creato da Brian, più lui si chiudeva in studio, lontano da tutto e da tutti, con la sola compagnia di strumenti e apparecchiature.


Wilson ha fatto cose che la tecnologia non è in grado di fare. Il suo lavoro ha una qualità più intuitiva che logica. I nerd che appartengono a questa categoria non hanno niente di meccanico, anche se possono sembrare simili a macchine. Vengono definiti nerd perché il loro comportamento è allo stesso tempo troppo poco umano e sovrumano.

La seconda categoria di nerd è costituita in egual misura da maschi e da femmine. Si tratta di individui che vengono definiti nerd perché socialmente ai margini.
Nel 1959, Anne Beatts – una ragazzina che a dodici anni frequentava già il primo anno delle superiori – si trasferì dal piccolo ambiente protetto di una scuola privata nella contea di Dutchess, nello stato di New York, a una scuola pubblica di Somers, all’epoca una delle più sperdute cittadine satellite della Grande Mela.
«Fu allora che sentii per la prima volta la parola nerd» racconta Anne. «La tipica immagine del nerd era uno che scoreggia nella vasca da bagno e scoppia le bolle che salgono in superficie. Ma praticamente i nerd erano tutti i ragazzini visti come sfigati dai popular kids, i più fichi della scuola. Erano tante le cose per cui si finiva per essere bollati come nerd: erano nerd gli sgobboni, quelli che andavano a fare i compiti in sala studio. Dal punto di vista dell’aspetto fisico, l’acne giovanile era uno dei requisiti più comuni. Io portavo la maglia della salute, mentre le altre ragazze già indossavano i primi reggiseni.»
Anne non aveva amici e cercava di finire i compiti a scuola, per cui si ritrovava a studiare durante l’ora di coordinamento o nella pausa pranzo. L’unica persona, oltre a lei, che aveva scelto quella vita appartata era «un genio della matematica, un ragazzino che parlottava da solo». Si chiamava Marshall.
«Qualcuno ci fece caso e mi chiese: “Ti piace Marshall?”. Io non ero addentro a certe sottigliezze del gergo della high school né mi rendevo conto della carica esplosiva di un verbo come «piacere». Non volevo rispondere: “No, non mi piace”, per cui dissi: “Sì, certo”. E allora tutti a dire: “Ah, le piace, eh? Allora è la fidanzata di Marshall!”.
E così venni presa in giro per tutto il primo anno di scuola: ero “la fidanzata di Marshall”, guadagnandomi anche il marchio di nerd.»
Era il 1962 e, a furia di saltare classi, Anne Beatts, a soli quindici anni, era arrivata all’ultimo anno di scuola. Era la redattrice del giornalino scolastico e coltivava qualsiasi attività potesse aiutarla a sentirsi accettata dai compagni, arrivando persino a preparare hot dog per le partite di football. Aveva raggiunto uno status che le garantiva un’immunità dalla costante presa in giro. Fu in quel periodo che decise di pubblicare sul giornalino scolastico un editoriale dal titolo «Lasciate in pace i nerd». L’articolo fu molto controverso e Anne alla fine fu sospesa dal suo incarico. Nei primi anni settanta cominciò a scrivere per il National Lampoon e nel 1975 approdò al Saturday Night Live.
Lì creò sketch incentrati su personaggi nerd, scrivendo a volte i testi insieme a Rosie Shuster, contribuendo così a far entrare nell’uso comune la parola nerd, come vedremo meglio in seguito. Beatts è stata anche autrice del telefilm Zero in condotta, una sitcom con protagonisti nerd, uno dei quali si chiamava Marshall Blechman.
Anne Beatts rappresenta la seconda categoria di nerd. È diventata una nerd non perché somigliasse in qualche modo a Marshall, ma perché i compagni di scuola, in cerca di zimbelli da far sentire esclusi, l’accomunavano a lui (che invece era un nerd appartenente alla prima categoria).
Nella cultura popolare americana gli eroi sono i surfisti, i cowboy, i pionieri, i gangster, le cheerleader e i giocatori di pallacanestro, gente che dà il meglio nell’impeto dell’espressione fisica di sé. Ma questi personaggi spesso sono frutto della fantasia di individui che somigliano molto di più ad Anne Beatts. Quel loro tipico voyeurismo da esclusi che spiano le gesta di una nazione splendente produce un’immagine dell’America che trova da sempre consensi in tutto il mondo, e anche nella stessa America. Il pianeta è pieno di outsider che muoiono dalla voglia di vedere, anche solo di sfuggita, la patria di tanti miti, e i nerd americani soddisfano questo bisogno producendo icone da adorare.
Brian Wilson – essere incorporeo, maniaco della sala di registrazione, che trascorreva giorni interi ad affinare le sonorità delle percussioni per canzoni che parlavano di squadre liceali di football e spiagge piene di ragazze – non rappresentava certo un’eccezione, bensì la regola fra gli inventori di miti nordamericani, che vanno dalla DreamWorks alla Microsoft. In questo libro cercherò di analizzare come una serie di personaggi mediatici – tutti nerd, chi più chi meno – hanno contribuito personalmente a forgiare il concetto attuale di nerd.

Esaminerò, inoltre, la relazione fra caratteristiche nerd e provenienza etnica. I nerd non appartengono necessariamente a una particolare classe sociale o a un determinato gruppo etnico, ma ci sono alcuni stereotipi etnici che più di altri hanno in comune con i nerd determinate caratteristiche. Verso la fine del xix secolo i pedagogisti raccomandavano ai ragazzi bianchi della media borghesia di coltivare il loro lato «primitivo», in modo che, crescendo, diventassero uomini atletici e di carattere, il contrario cioè dei cosiddetti greasy grinds, gli sgobboni che studiavano sodo per potersi riscattare dalla vita che conducevano nel Lower East Side. Negli anni ottanta, gli opinionisti dei giornali paventavano l’imminente conquista del mondo da parte dei giapponesi, forti della loro passione per la tecnologia e di una mentalità aziendale tecnologizzata. Immaginiamo che un responsabile della propaganda del Terzo Reich, grazie alla macchina del tempo, si ritrovasse catapultato nel 1984 e vedesse un film come La rivincita dei nerds: senz’altro individuerebbe dietro il personaggio di Lewis Skolnick, il protagonista, la tipica vecchia caricatura dell’ebreo, e in Orco e la sua cricca, per lo più tipici jock, cioè sportivi, biondi e con gli occhi azzurri, vedrebbe (dal punto di vista dell’aspetto, se non da quello del comportamento) la rappresentazione dell’ideale ariano, sebbene nel film non vengano mai sfiorate tematiche etniche o religiose. Mary Bucholtz, studiosa di linguistica, ha rilevato che, tra i ragazzi delle superiori, molti di quelli che si considerano nerd parlano un angloamericano formalmente ineccepibile – mentre i ragazzini bianchi più «fighi» prendono in prestito termini dello slang hip-hop – tanto da essere caratterizzati da quella che lei chiama hyperwhiteness: un’appartenenza così marcata alla razza bianca da annullare quell’aura di normalità che in genere accompagna i bianchi. La storia dell’evoluzione del concetto di nerd ci aiuta a capire meglio alcune nostre idee sul «primitivo» e «l’orientale», sui bianchi, gli ebrei, la natura e la tecnologia.

Quando dico «nostre idee» non mi riferisco solo alla mentalità americana. Rosie Shuster, Lorne Michaels ed Elvis Costello – due canadesi e un inglese – hanno contribuito moltissimo, nello stesso frangente storico, a delineare il concetto di nerd. L’otaku è una tipologia umana giapponese simile al nerd americano. A Tokyo ha addirittura un suo quartiere, Akihabara, famoso per le cameriere che si vestono come personaggi dei manga. In Inghilterra la parola boffin viene usata da secoli. Su internet si sprecano le teorie sulle sottili differenze di significato fra termini quali geek, dork e nerd nella Silicon Valley e in altri avamposti tecnologici. Ma in un’ottica internazionale, la figura del nerd/otaku/geek/dork è quella di un personaggio che presenta determinate caratteristiche: solitudine, natura ripetitiva e meccanica del lavoro in un’epoca industriale e postindustriale, scarso uso del corpo in un contesto ipermoderno e influenza dei mass media contemporanei che invitano le persone a intraprendere rapporti voyeuristici con delle mere finzioni, rendendole insensibili ai piaceri della vita reale. Capire i nerd significa approfondire la nostra conoscenza di numerosi demoni del nostro tempo.

Al di là di una definizione più o meno scientifica del concetto di nerd, si può parlare di uno stile nerd, di un’estetica nerd. Ci sono cose che si riconoscono subito: gli occhiali dall’aspetto indistruttibile eppure sempre mezzi rotti, le coscette nude che escono da sotto i bermuda con le pince, la risata infantile, la tendenza a prendersi molto sul serio. Questi sono sintomi universalmente riconosciuti, ed è interessante osservare quanto siano ricorrenti in alcuni personaggi della cultura pop.

Qual è la storia del nerd? Che caratteristiche hanno le varie sottoculture nerd e quali sono le regole e i rituali che accomunano queste sottoculture? Che cosa c’entrano le storie di due miei amici d’infanzia?
Questo è un argomento di solito trattato con una certa leggerezza, il mio invece sarà un approccio molto serio, da vero nerd.

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È uscito per Isbn Edizioni Storia naturale del nerd di Benjamin Nugent.

Nugent ha scritto per il New York Times Magazine, GQ, Time, New York, ed altre testate. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati su Tin House. Vive a Iowa City.

La foto è di crimfants