La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio – Episodio 6

Sesta puntata del libro di Brizzi: le origini del Gabibbo e il suo impegno sociale

Restava al Silvio un ostacolo cruciale: la proibizione di trasmettere in diretta.
Senza diretta, niente telegiornali.
Senza telegiornali, gravi buchi negli ascolti e corrispondenti guadagni mancati nella raccolta pubblicitaria.
Fino a quando un paese libero come l’Italia del pentapartito avrebbe tollerato quegli insopportabili lacci e lacciuoli?
Fino a quando la Fininvest avrebbe dovuto limitare l’in­formazione e l’attualità alle domande in differita del signor Mike?
Una norma che solo il Silvio, inizialmente, poteva vedere come un’ingiustizia ai propri danni finì per essere recepita da buona parte della popolazione: perché mai non lasciavano che quel buon uomo trasmettesse in diretta? Avevano paura? Erano comunisti? Senza contare che, da un po’ di sana concorrenza, avrebbe tratto giovamento la stessa Rai…
Argomenti strumentali si fecero strada pian piano travestiti da buon senso.
Ma poi, dev’essersi detto qualcuno dalle parti di Cologno Monzese, agli italiani non è sempre piaciuto ridere?
Allora, se un telegiornale vero non si poteva avere, avanti coi carri verso il nuovo obiettivo: il primo telegiornale satirico d’Italia.
Antonio Ricci, al quale il Silvio doveva tantissimo per Drive in, ebbe modo di sperimentare programmi nuovi e dichiaratamente intelligenti come nessun altro autore Fininvest: Lupo solitario non lo guardai per principio, ché ero un appassionato del libro-game dallo stesso nome, e mi era stato assicurato che la trasmissione non aveva nulla a che fare con le avventure, piene di bivi e partite a dadi dagli esiti teoricamente fatali, del mio eroe fantasy preferito.
Solo quando seppi che nella seconda edizione Ricci aveva cambiato il titolo con un russofono Matrjoska accettai di dare un’occhiata. Voci incontrollate – che sospettavo messe in giro dal solito Iuri Giacobbi – promettevano un nudo integrale di Moana Pozzi in trasmissione, evento destabilizzante, in grado di oscurare ai nostri occhi il bolognesissimo cast di concittadini.
Erano cresciuti artisticamente – come si dice – alle soglie del quartiere, i ragazzi del Gran pavese varietà: si chiamavano Patrizio Roversi (era lui, il sedicente «Lupo solitario») e Syusy Blady, Vito e «i gemelli Ruggeri», affiancati per l’occasione da un’altra straordinaria creatura di via del Pratello, Eva Robin’s.
Il programma affrontava di petto tre tabù dell’epoca: il comunismo, ormai trasformatosi da nemico in zimbello; la sgradevolezza esplicita, portata in scena dall’orripilante e volgarissimo pupazzo Scrondo; infine, ma non ultimo nei pensieri maschili, il porno – mai nessuno prima d’allora aveva visto Moana in tivù senza l’aiuto di un videoregistratore.
Eravamo cresciuti con le sue televisioni, ma il Silvio tentennò: che Ricci gl’imponesse un passo più lungo della gamba?
Fra polemiche roventi, litigi di cui non v’è traccia ufficiale e segreti accomodamenti, il giovane segretario del Ponente ligure mantenne la barra dritta e riuscì a imporre la sua linea al comitato centrale di Cologno Monzese: pare che l’unico accomodamento concesso alla proprietà sia stato il cambiamento del titolo, da Matrjoska a L’Araba fenice.
Mentre andavano in onda le imitazioni dei dirigenti bolscevichi di Croda, nel mondo reale Gorbaˇcëv aveva già avviato la sua perestrojka, ma il Muro di Berlino era ancora in piedi.
L’impero orientale scricchiolava, e il Silvio si preparava guardando, a modo suo, verso Est; in patria, molto pragmaticamente, aveva avviato un nuovo capitolo della colonizzazione dell’immaginario. Grazie a quella brillante canaglia di Ricci e alla presenza dei compagni comici bolognesi, adesso anche i comunisti italiani guardavano Italia Uno. Per attirarli, lo spregiudicato Silvio mise da parte ogni scaramanzia, e autorizzò Ricci a mandare in onda un burlesco funerale del Silvio.
Per i non-comunisti, Ricci scrisse il più convenzionale Odiens, trasmesso da Canale 5: col senno di poi, il vero snodo fra il successo giovanile di Drive in e la definitiva consacrazione come autore di Striscia la notizia.
Stavolta il materiale era potenzialente nocivo, anche per esperti iconoclasti del calibro di Ricci e dello stesso Silvio: avrebbe accettato la rancorosa classe politica italiana di farsi mettere alla berlina dall’ex autore di Beppe Grillo e dall’ex tessera 1816 di una nota loggia massonica deviata?

Striscia la notizia fu varato nell’autunno del 1988 con il meritevole proposito di surclassare «la comicità di Bruno Vespa» – the face dell’informazione di Stato già in quel tramonto di Prima Repubblica.
A riprova delle aspettative del Silvio, dal dicembre dell’anno successivo «il primo telegiornale satirico» trovò stabile collocazione su Canale 5, nella fascia oraria in cui i milanesi finiscono di cenare e i romani vi si dispongono, la stessa che ancora oggi occupa sulle guide tv.
Per non lasciare ai soli mezzibusti – i soliti D’Angelo e Greggio – il compito di reggere l’attenzione del pubblico, gli annunci di misfatti, eventi carnevaleschi e pseudocalamità erano ravvivati dall’ingresso in scena di un pupazzo rosso dalle sembianze già familiari, e da due improbabili segretarie di redazione, le giovani e dinamiche veline: le fascinazioni verbali filosovietiche di Croda avevano lasciato il posto prima alle «littorine», le vallette di Odiens, ed ora i tempi erano maturi per tirare in ballo suggestioni da Minculpop.


Esercitando il diritto alla satira garantito dalla legislazione democratica, Ricci fu il primo ad evocare sulle televisioni del Silvio l’impronunciabile rimosso della vita nazionale: il ventennio fascista.
Che questa nube nera sia apparsa sullo schermo per battezzare due avvenenti signorine suona scanzonato a determinate orecchie, lugubre e premonitore ad altre.
(Ma quand’è che la finite di preoccuparvi, voi comunisti?
I tempi sono cambiati!
La Guerra fredda è finita! Rilassatevi anche voi!
O il problema è per caso che non vi piace la figa?)
La bellezza femminile, a Striscia, non mancò mai: nelle prime edizioni alle veline, che arrivavano scendendo da uno scivolo, si affiancavano le sexy infermiere, figure senza equivalenti nella maggior parte delle vere redazioni; Angela Cavagna, «erede naturale» di Carmen Russo a livello di scollatura, con una succinta divisa da corsia ospedaliera oscurò brevemen­te le stesse veline, che si rilanciarono grazie a Fanny Cadeo, ­spigliata a Striscia ma davvero perfetta sulle mute pagine di ­«Playmen».
Solo nel 1994-95, contestualmente al primo governo del Nostro, sarebbe stata introdotta la formula «una bionda e una mora», riecheggiante l’aurea proporzione escogitata in Rai per le vallette di Sanremo. Quell’anno furono scelte rispettivamente Laura Freddi e Miriana Trevisan, due giovanissime vecchie glorie di un programma di Gianni Boncompagni che aveva per protagonista una legione di minorenni.
Quale fosse il suo nome, e che razza d’impulsi suscitasse in noialtri liceali, lo ricorderemo nel giro di poche pagine. Per ora basti dire che le veline diventarono autentiche istituzioni del costume italico – Iuri Giacobbi comprava «Tv sorrisi e canzoni» per scoprire in anticipo quali sarebbero state le nuove prescelte, mentre i calciatori di serie A si affollavano intorno alle veline uscenti e alle ex delle stagioni precedenti. «Diventare velina» sostituì «diventare Miss Italia» in testa ai desideri delle adolescenti senza troppa fantasia, e nel giro di poco sarebbe caduto l’ennesimo tabù: a quel punto anche le ragazzine di buona famiglia potevano esibirsi senza troppo scandalo davanti a Ezio Greggio ed Enzo Iachetti in movenze e coreografie un tempo riservate alle odalische.

Tornando al pupazzo rosso di Striscia la notizia, che parlava con accento genovese e aveva nome «il Gabibbo», all’inizio era un vero impiastro: irrompeva a disturbare le trasmissio­ni come un Cavallo pazzo qualsiasi, ma presto maturò e assunse l’identità di un grottesco raddrizzatorti al servizio della cittadinanza.
Somigliava come una goccia d’acqua a Big Red, la mascotte dell’università americana del Western Kentucky, famoso dai primi anni Ottanta per le sue evoluzioni a bordo-parquet durante gli incontri di basket, al punto da essere premiato per tre volte come più efficace fomentatore del tifo nelle leghe uni­versitarie.
Il sospetto che un’icona della televisione italiana debba i suoi natali a un volgare plagio si affaccia ancor oggi alla mente di chiunque abbia confrontato le fattezze del Gabibbo a quelle di Big Red, reperibile su internet a un paio di click di distanza dal parente italiano; eppure, nonostante si somiglino come gemelli omozigoti persino nel disegno delle sopracciglia, sbaglieremmo di grosso a fidarci dei nostri sensi.
A ingarbugliare le cose, nel 1991 «Novella 2000» aveva interrogato Ricci in proposito, e allora l’autore aveva ammesso che il Gabibbo non era, almeno limitatamente alle fattezze, farina del proprio sacco. «E chi l’ha mai detto? Io l’ho adotta­to» aveva spiegato. «In aridi termini legali, ne ho i diritti per l’Italia… C’era questo pupazzo, Big Red si chiamava, che faceva la mascotte di una squadra di basket in America. La squadra è la Western Kentucky University. Gioca in tornei minori, ma il pupazzo era simpatico… Big Red è diventato Gabibbo.»
Dodici anni dopo l’ex ragazzo prodigio del Ponente ligure avrebbe smentito la circostanza ch’egli stesso aveva così riccamente documentato.
Flashback improvviso, o effetto della causa da 250 milioni di dollari mossa dai licenziatari per l’Italia di Big Red?
La straordinaria somiglianza non si poteva sottacere: i giornali dell’epoca ne parlarono come di una seria tegola che pioveva in testa all’ex ragazzo prodigio del Ponente ligure e, di rimbalzo, allo stesso Silvio.
«Anche Ricci assomiglia a Sean Connery, e da giovane a Franco Nero. Ma non è nessuno dei due» dichiarò con logica stringente Gero Cardarelli, «movitore» del pupazzo.
Gli argomenti concreti a difesa dell’originalità del Gabib­bo latitavano, e la «confessione» di Ricci nel 1991 complicava le cose.
«Si trattava di una risposta scherzosa concordata con l’in­tervistatore» avrebbe ricostruito infine l’autore: dopo quattro anni col fiato sospeso, la sua suggestiva tesi sarebbe stata ­ac­colta definitivamente nel 2007 dal tribunale di Lugo di Romagna, scagionando da ogni ombra lui e la sua straordinaria in­venzione.
Apprendiamo così che la differenza fra i due non sarebbe tanto nel fatto che Big Red è «nudo» mentre il Gabibbo indossa – ma non dai suoi esordi – una «finta camicia», e nemmeno nelle impercettibili differenze nel disegno della bocca, quanto nel fatto che «suscitano nella gente emozioni diverse: da un lato, infatti, una mascotte; dall’altra un personaggio che è showman, giornalista, cittadino indignato».
Sentenza ad pupazzum?