La guerra coi refusi

Sul sito di Internazionale un bel racconto sul duro lavoro del correttore

Sul sito di Internazionale c’è un’affascinante blog-rubrica che si chiama “Le correzioni” dedicato al linguaggio usato nel giornale e alle sue verifiche e correzioni (parliamo di un settimanale che traduce molto, e che cerca di fare le cose bene). Il nuovo post è una bella spiegazione della facilità con cui certi refusi passano inosservati anche agli occhi più allenati.

Quella dell’870 era una di quelle settimane che te le pregusti.
Sette pagine sui primi due anni della presidenza Obama, un bell’articolo del corrispondente dalla Casa Bianca per il New York Times. L’avevi aggredito già al secondo paragrafo, e d’accordo con la traduttrice avevi sostituito quel passato remoto faticoso con uno smagliante presente storico. Avevi fatto del tuo meglio per rendere in italiano il politichese un po’ ammiccante della lingua originale. Avevi controllato nomi, citazioni, numeri e date. La copy editor aveva fatto il resto: aggiustato i passaggi farraginosi, suggerito un paio di tagli molto opportuni e scovato almeno un errore (chissà perché il glass half empty era diventato un bicchiere mezzo pieno, invece che mezzo vuoto, p. 47). Avevi inserito le correzioni, stampato tutto e passato le pagine al vicedirettore, che le aveva controllate di nuovo. Pure il direttore le aveva lette, lasciando le sue tracce inconfondibili con il pennarellino rosso. Avevi accolto gli ultimi aggiustamenti e ristampato l’articolo per la correttrice di bozze, inserito le correzioni, eliminato i doppi spazi, fatto il controllo ortografico con il correttore automatico.
Possibile che non te ne sei accorta? Sotto al titolo c’era scritto, in corpo 13, New Yok invece di New York (p. 44).

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