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  • Lunedì 20 settembre 2010

Il nuovo volto della rivolta in Kashmir

È la ribellione dei giovani che hanno conosciuto solo guerra e vessazioni

Ora la chiamano la “cyber-intifada”: la violenta ribellione di migliaia di giovani che, armati soltanto di sassi e telefoni cellulari, stanno sfidando il governo indiano nella valle del Kashmir da oltre tre mesi. Il National Post canadese ne parla in un lungo articolo:

Giorno dopo giorno, migliaia di giovani arrabbiati e delusi si sono scontrati con le forze armate indiane, urlando contro i soldati «Libertà per il Kashmir!» e «India, vattene!» e lanciando sassi. I soldati hanno risposto regolarmente sparando lacrimogeni e colpi di arma da fuoco. I giovani hanno ripreso gli scontri con le macchine fotografiche e le telecamere dei loro cellulari e hanno iniziato a postare le immagini dei morti e dei funerali su Facebook.


Tutto è iniziato l’undici giugno, quando Tufail Mattoo, 17 anni, è morto dopo essere stato colpito alla testa da un candelotto lacrimogeno mentre stava tornando a casa da scuola. Da allora più di cento persone sono state uccise negli scontri. Diciotto solo lo scorso lunedì, quando una delle proteste anti-indiane è degenerata in seguito alla falsa notizia diffusa da una tv iraniana che negli Stati Uniti erano state bruciate alcune copie del Corano. Il Kashmir è l’unico stato dell’India a maggioranza musulmana e anche per questo è stato da sempre al centro delle rivendicazioni tra India e Pakistan.

Il conflitto iniziò con la partizione del 1947, in seguito al collasso dell’impero coloniale britannico nel subcontinente indiano. I due stati nascenti di India e Pakistan si costituirono intorno a due idee profondamente diverse di nazionalismo: da un lato il nazionalismo indiano, rappresentato dall’Indian National Congress e dal suo leader Jawaharlal Nehru, fautore di un’India laica, multiculturale e multireligiosa; dall’altro, Muhammad Ali Jinnah, il padre fondatore del Pakistan (“la terra dei puri”), che invece avanzava un’idea di nazione basata sull’Islam quale elemento culturale comune. Lo Stato del Kashmir costituì quindi un’eccezione nel contesto della spartizione su base religiosa, perché nonostante la sua popolazione fosse in maggioranza musulmana, il sovrano hindu – il Maharaja Hari Singh – decise di firmare l’annessione all’Unione Indiana.

Ne seguì un primo conflitto che si concluse solo nel 1949 con la divisione della regione in due parti: il Jammu Kashmir, assegnato all’India e lo Azad Kashmir, assegnato al Pakistan. Da allora il Pakistan ha continuato a rivendicare il territorio indiano – quello più esteso, con capitale Siringar – assumendo posizioni sempre più aggressive e intensificando le sue pressioni politiche fino a sostenere la formazione di movimenti insurrezionali. Alcuni di questi chiedono la costituzione di uno stato sovrano e indipendente, come accadde per il Bangladesh nel 1971. Altri chiedono l’annessione al Pakistan. Il conflitto finora ha causato tre guerre e circa 70mila morti, la maggior parte civili. L’ultimo tentativo diplomatico tra i due Paesi si è interrotto nel 2008, in seguito alle accuse di Delhi contro alcuni militanti con base in Pakistan, sospettati di aver compiuto gli attentati di Mumbai.

Negli ultimi giorni migliaia di soldati e di truppe paramilitari sono stati dispiegati nella valle per cercare di impedire ai suoi abitanti di uscire di casa. Tutti i voli da e per Siringar sono stati sospesi per tre giorni, l’unica strada che collega il Kashmir al resto dell’India è bloccata dai soldati e un nuovo rigidissimo coprifuoco è stato imposto su tutti i centri abitati. Mercoledì il governo indiano ha convocato tutti i partiti per una riunione d’emergenza, ma non sembra essere riuscito a trovare nessuna reale soluzione per fermare la violenza. Il Times of India lo accusa di essere del tutto incapace di gestire la situazione: «Mentre il governo vacilla, il Kashmir è in fiamme», ha scritto in un durissimo editoriale.

La situazione sembra essere complicata dal fatto che questa volta la ribellione non ha nessun leader, ma è nata spontaneamente dalla rabbia di migliaia di giovani disoccupati, che da quando sono nati hanno visto solo guerra e violenze. Sono loro il volto esasperato della nuova ribellione in corso. Non seguono ordini, danno ordini. Il che potrebbe segnare l’inizio di una fase ancora più pericolosa della guerra in Kashmir:

Basta pensare a quello che è successo in Afghanistan quando i Talebani sono emersi dalle loro madras o quando al Shabaab (“La Gioventù”) si è unita alla lotta per il potere in Somalia. «È difficile essere moderati in questo momento», spiega il leader della moschea principale di Siringar, Mirwaiz Umar Farooq, «l’atteggiamento di queste persone, soprattutto dei giovani, potrà solo peggiorare se continuerà questo continuo stato di occupazione e pericolo e li spingerà sicuramente a imbracciare le armi».

Oggi il Kashmir è considerato una delle zone più pericolose del mondo, e una delle più militarizzate. Quasi un terzo delle forze armate indiane sono impiegate per le strade delle città e sui confini, in tutto 600mila truppe per una popolazione di otto milioni di persone. Soldati con armi automatiche e giubbotti anti-proiettili pattugliano costantemente ogni angolo della valle. Come risultato un crescente senso di alienazione e antagonismo si è sviluppato tra gli abitanti. Le organizzazioni umanitarie internazionali denunciano da tempo le torture, i rapimenti, gli stupri e le continue vessazioni che le forze di sicurezza indiane infliggono alla popolazione locale. Allo stesso tempo i gruppi estremisti musulmani si sono spesso accaniti contro i civili, uccidendo leader politici o ufficiali pubblici sospettati di essere complici del governo indiano, massacrando intere famiglie hindu e minacciando chiunque si rifiutasse di aiutarli.

«È difficile trovare una famiglia in Kashmir che non abbia subito qualche forma di violenza o umiliazione», spiega Mushtaq Margoob, uno psichiatra del Government Medical College di Siringar. Secondo le sue stime circa il 19 per cento degli abitanti del Kashmir soffre di gravi forme di depressione e il 16 per cento di disturbi post-traumatici da stress: sospetto e paura permeano l’intera valle. Sono i figli di tutta questa violenza che costituiscono l’ossatura della ribellione oggi in corso. «Ogni nuova morte, ogni nuova umiliazione per le strade trascina semper più persone dentro alla protesta e allo stesso tempo intrappola il governo indiano in un vicolo cieco, con sempre meno possibilità a disposizione, rendendo le cose sempre più facili per i gruppi estremisti», scrive Samar Halarnkar sullo Hindustan Times.