La vera fine dei libri

Non saranno i libri di carta a sparire, ma il nostro interesse per loro

Nel nuovo libro di Gary Shteyngart (“Super Sad True Love Story“), uno scrittore americano di origine russa piuttosto stimato e tradotto in tutto il mondo, si immagina un futuro molto prossimo in cui ci si riferisce ai libri – le rare volte che capita di parlarne – chiamandoli “fermaporta”: senza sarcasmo, quello è diventato il loro nome, evidentemente in conseguenza dell’uso prevalente.

Slate ha pubblicato un commento di Jack Shafer – uno dei suoi columnist più popolari – sul suo mutato rapporto con i libri, nel senso dell’oggetto libro-di-carta. Shafer, che si definisce un “ex bibliofilo”, parte dalla constatazione della perdita di glamour ed efficacia delle presentazioni dei libri nel mondo editoriale, e soprattutto ai suoi occhi. Non sono più celebrazioni e autocelebrazioni gratificanti e ammirate come erano un tempo.
Le considerazioni di Shafer sono interessanti, e sarebbe sciocco snobbarle con uno “sciagurato, nessuno mi toglierà mai la passione per i miei libri, e la mia libreria, e il fruscìo della carta, e il libro è cultura”, eccetera. Quello che Shafer anticipa sta davvero succedendo vicino a noi, e presto succederà a noi. E non è solo una questione di fine della carta e passaggio al digitale, nello stesso formato. È il concetto di libro ad attraversare una trasformazione e la sua centralità nella costruzione della cultura contemporanea sta accelerando il proprio declino.

Quasi tutti i quotidiani americani hanno cancellato i loro inserti dedicati ai libri, convertendoli a sezioni interne del giornale, spiega Shafer, che non cambia opinione all’annuncio di oggi che il Wall Street Journal potrebbe introdurre una nuova sezione libri (lo fanno solo per battere il New York Times su ogni terreno, secondo Shafer). E la ragione principale della perdita di fascino e importanza del libro anche agli occhi dei saggisti stessi è che se una volta il libro era la certificazione dell’immortalità del proprio lavoro e del proprio pensiero, un testo di riferimento a cui i lettori sarebbero ricorsi ogni volta che fossero stati in cerca delle informazioni in esso contenute, oggi questo non accade più. Il luogo immortale e perenne di deposito delle informazioni è diventato la rete, e la pubblicazione di un libro ha perso gran parte dell’aura di consacrazione che aveva un tempo.

Ci sono due tendenze principali che rendono marginale il libro nelle nostre culture. Una è quella citata da Shafer del trasferimento sulla rete del deposito delle informazioni – buone o cattive che siano -, l’altra è quella dell’accorciamento delle elaborazioni e delle analisi, fattore e conseguenza dell’accorciamento della nostra soglia attenzione e concentrazione su uno stesso tema. Cambia il luogo del prodotto letterario o saggistico, cambia il suo formato.

Chi negli ultimi mesi ha cominciato a essere familiare con l’uso di iPad (parliamo degli Stati Uniti, che in Italia non c’è niente da leggere) si è accorto che – contrariamente alle speranze degli editori – non ha incentivato una maggiore familiarità con la lettura di libri, malgrado siano più accessibili, più economici, più trasportabili: ma piuttosto ospita una riproduzione dei meccanismi di lettura rapida, multitasking, attività continue e alternate, ormai tipica del nostro rapporto con la tecnologia. E in ogni caso, la maggior familiarità con i libri digitali – smaterializzati – ci indurrà a una maggiore indifferenza nei confronti della loro concretezza, come è già avvenuto con la musica. Il contenitore che un tempo ci pareva imprescindibile dal contenuto, ora si rivela inutile. E trova rivincita una vecchia accusa di alcuni uomini colti e dispettosi che prendevano in giro la sopravvalutazione dell’oggetto libro a discapito della cultura che possono o non possono contenere.

“I libri saranno sostituti dalla lettura”, dice Shafer.

Se ci fate caso – se no ce lo farete, è un processo avviato – sta già avvenendo con i giornali. Al Post, la lettura di tutti i giornali avviene ormai su supporti digitali, senza carta. L’unico quotidiano di carta che è circolato in redazione negli ultimi due mesi è una copia del Globe and Mail canadese portato dal direttore a un redattore collezionista di quotidiani internazionali: collezionismo, appunto. Ma ci stiamo emancipando non solo dai giornali di carta – e dalle cataste conseguenti – ma anche dall’abitudine e dal sacrale rispetto per la carta. Le versioni digitali sono più comode, più economiche, più ecologiche e persino già “più belle”, per alcuni. Si aggiunge a questo processo una perdita di autorevolezza da parte dei giornali, che un’idea di rinnovata modernità delle versioni digitali prova a compensare. Ma “l’ho letto sul giornale” è una frase che non ha più il senso di una volta.

Shafer sostiene che ci sono anche altri indicatori del calo di centralità del libro nel nostro mondo. I vecchi libri usati oggi si vendono online a prezzi molto più bassi di qualche anno fa, e il rapporto con gli oggetti di carta si avvia a diventare simile a quello con i cd, un tempo custoditi e accumulati con passione e adesso ingombranti e in cerca di luoghi di accantonamento. Certo, la bellezza estetica di alcuni libri li protegge maggiormente rispetto ai cd, ma è difficile che questo possa bastare a conservare la loro rilevanza: se non li chiameremo “fermaporte” li chiameremo “soprammobili”, forse.

Quello che oggi pare a molti implausibile – sradicare dalla propria esistenza un oggetto che ne fa intimamente parte – è effettivamente implausibile. Infatti avverrà un’altra cosa: che quell’oggetto smetterà di fare intimamente parte della loro esistenza. Si sradicherà da solo. E se ancora vi pare uno scenario scandaloso e che non vi riguarda, beh, cominciate a immaginare a cosa ne faranno i vostri figli, dei libri che lascerete loro.