USA, quanto contano i Tea Party

Meglio il dibattito kitsch che nessun dibattito, scrive Christian Rocca

Sul Sole 24 Ore di sabato Christian Rocca, esperto di cose americane da poco arrivato al giornale dal Foglio, ha analizzato il peso e il significato che il fenomeno dei Tea Party ha guadagnato sulla scena politica statunitense, alla vigilia delle elezioni di metà mandato.

Fino a qualche tempo fa si poteva ridere e scherzare sui Tea Party, l’ambiguo movimento liberista, libertario e conservatore, ma con toni infelici di estremismo, che sembra aver colto di sorpresa l’establishment politico di Washington. I commentatori e i politici lo liquidavano come una frangia radicale, un fenomeno di poco conto, minoranza con venature razziste. Ma le critiche non ne hanno fermato la crescita.
La manifestazione di ieri al Lincoln Memorial sul National Mall della capitale americana, organizzata dal conduttore militante di Fox News, Glenn Beck, con qualche malizia nel luogo e nell’anniversario del nobile I have a dream di Martin Luther King, ha confermato anche fisicamente che il movimento che si batte contro le tasse e per la fine dell’intervento pubblico nella vita sociale ed economica del paese è diventato un player nella politica americana.
Reaganismo estremo (il vecchio presidente in realtà non toccò lo stato sociale e, semmai, allargò la spesa) e individualismo di frontiera non sono più posizione minoritaria, anche grazie all’imitazione delle tecniche di organizzazione sociale della sinistra radicale dettate negli anni Settanta da Saul Alinski, ispiratore dell’impegno politico di Barack Obama e di Hillary Clinton. Non è un caso che nelle classifiche dei libri più venduti su Amazon siano saliti sia la saga antistatalista di Ayn Rand sia il manuale di regole per i radicali di Alinski.

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