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  • Mercoledì 11 agosto 2010

In cerca di una scusa

Luciano Gallino su Repubblica sostiene che la sentenza di ieri contro Fiat sia una vittoria di Fiat

FILE - In this file photo made March 30, 2010, CEO Sergio Marchionne, Chrysler Group LLC, speaks to reporters after the Automotive Forum 2010 in New York. Chrysler Group LLC said Monday, Aug. 9, 2010, that growing car and truck sales helped it narrow its second-quarter loss to $172 million. (AP Photo/Jin Lee, File)
FILE - In this file photo made March 30, 2010, CEO Sergio Marchionne, Chrysler Group LLC, speaks to reporters after the Automotive Forum 2010 in New York. Chrysler Group LLC said Monday, Aug. 9, 2010, that growing car and truck sales helped it narrow its second-quarter loss to $172 million. (AP Photo/Jin Lee, File)

Il commento di Luciano Gallino in prima pagina su Repubblica parte da un dato di fatto: la sentenza di reintegro dei tre operai della Fiom licenziati con scelta giudicata “antisindacale” era ampiamente prevedibile. E allora perché Sergio Marchionne e i suoi collaboratori – non certo degli sprovveduti, dice Gallino – hanno compiuto quella che scelta “che portava dritto contro un muro”?

Il quesito è d’obbligo, perché rispetto alla questione dei licenziati di Melfi i rischi cui Fiat va incontro sul piano giuridico ed economico con il piano di Pomigliano e ciò che vi ruota attorno sono molto più grandi. Il piano presentato ai sindacati nel maggio scorso ha fatto sorgere seri dubbi circa la possibilità che limiti il diritto di sciopero, e perfino il diritto di ammalarsi, giacché nel caso che la percentuale di assenteismo «sia significativamente superiore alla media» l’azienda – la sola a decidere quanti punti o decimi di punto siano significativi – si considera libera dall’obbligo di pagare le quote di malattia. Nelle discussioni seguite alla presentazione del piano l’ad Fiat si è poi più volte riferito alla possibilità che l’azienda fuoriesca dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Infine è spuntato il progetto di costituire una nuova società, la quale rileva gli impianti di Pomigliano e assume soltanto i lavoratori che accettano l’organizzazione del lavoro e i vincoli comportamentali del piano di maggio. Quanto basta per mobilitare folle di giudici del lavoro, avvocati, e lavoratori che per anni faranno causa all’azienda.

Insomma, se l’aria che tira è quella della sentenza di ieri, dice Gallino, non c’è tanto spazio per i progetti Fiati di smontare le regole sindacali: o se ce n’è, rischia di essere occupato da grane legali. E quindi daccapo, torna ovvia la domanda sulle ragioni Fiat nel tirare questa corda. La risposta più diffusa nei giorni di Pomigliano e della discussione sulle richieste Fiat per mantenere lo stabilimento era stata che Marchionne “ci stava provando”, di fatto. Spararle grosse ed eventualmente fare un passo indietro per spostare il limite del consentito.

È stato un ballon d’essai, si dirà. Vediamo come va a finire, han pensato al Lingotto, e se le acque non si agitano troppo faremo un altro passo per portare in Italia condizioni di lavoro polacche. Oppure si è trattato dell’inizio d’una politica del carciofo. Tre o quattro licenziati oggi, pochi per scuotere l’indifferenza generale; cento o più domani, magari con la scusa che non volevano accettare i dettami della Manifattura di Classe Mondiale, come si richiederà a tutti i dipendenti della nuova Pomigliano, filiazione Fiat ma tenuta a distanza di braccio dalla genitrice.

Gallino ha però un’altra ipotesi: ovvero che Fiat se le stia cercando, e che quello che vuole ottenere sia una scusa per andarsene da un accordo che non ha mai voluto, o delle cui implicazioni si è resa conto strada facendo. Avrebbe addirittura voluto che fallisse quell’accordo, anche nel referendum

Ma la realtà potrebbe essere un’altra. Potrebbe darsi che la Fiat, a conti fatti, non abbia molta voglia di produrre la Panda in Italia. È una vettura piccola e semplice, che permette di guadagnare, quando tutto va bene, poche centinaia di euro per unità prodotta. È la vettura da produrre giusto in Polonia, in Turchia, o magari in Cina, cioè in paesi dove il costo complessivo del lavoro è da due a cinque volte più basso, e i sindacati di fatto non esistono. Ma per fare un passo indietro di notevole risonanza economica e politica la Fiat ha bisogno di buoni motivi. Pensava forse di trovarli nella resistenza dei sindacati, questi residui ottocenteschi di un mondo industriale che non c’è più, come tanti politici, oltre all’ad Fiat, li hanno definiti. Purtroppo per essa – ammesso che questo fosse il disegno – la resistenza dei sindacati quasi non c’è stata, visto che tre sindacati e mezzo hanno prontamente sottoscritto il lodo Pomigliano, né hanno battuto ciglio dinanzi alla prospettiva di una nuova società palesemente costituita allo scopo di poter scegliere i lavoratori che ci stanno.

E in questa luce, la sconfitta cercata che Fiat non ha ottenuto col referendum sarebbe arrivata ieri con la sentenza di reintegro.

Se alla fine il disegno Fiat fosse proprio quello di un ritiro motivato dalle difficoltà che si incontrano in Italia per produrre vetturette in modo competitivo a paragone di polacchi e serbi, e prima o poi di cinesi e indiani, quale miglior appiglio della sentenza di un giudice del lavoro che reintegra al loro posto tre operai accusati nientemeno che di sabotaggio? Il costo di questo singolo insuccesso legale è minimo. Ma può essere il punto di appoggio atto a sollevare la Fiat da un impegno che appare ogni giorno più scomodo. In un paese dove i giudici del lavoro si mobilitano in poche settimane per salvare dalla disoccupazione un gruppetto di operai, ci si deve dare atto – potrebbe aver ragionato l’azienda – che non si può andare avanti con la prospettiva di dover affrontare per un lungo futuro complicate vertenze con buon numero degli uni e degli altri. I licenziamenti di Melfi, apparentemente così incauti, cadrebbero allora al loro posto nella strategia della Fiat.