Il piano di Obama per l’Iran

L'Economist descrive le varie tappe della strategia statunitense, e sospende il giudizio

Non si può dire che l’agenda internazionale di Barack Obama sia povera di problemi dalla complicata risoluzione. La guerra in Afghanistan è da sola un capitolo talmente articolato che il dipartimento di stato potrebbe occuparsi praticamente solo di questa, e forse tempo e risorse comunque non basterebbero. Poi c’è la guerra in Iraq, che sarà pure sulla via della conclusione ma rimane un argomento delicato, specie per come può condizionare il Medio Oriente. Basterebbe questo. Invece, tra le mille altre cose che rimangono – la Russia, la Cina, il Sudamerica, etc – c’è un’altra matassa internazionale di notevoli proporzioni che l’amministrazione Obama si è trovata a dover cercare di sciogliere, non senza difficoltà: l’Iran.

Qualche giorno fa Stephen Walt su Foreign Policy ha passato rapidamente in rassegna i risultati ottenuti da Obama nella normalizzazione dei rapporti con l’Iran e nei tentativi di disinnescare la minaccia nucleare, dandone giudizio negativo. Sull’Economist di questa settimana, la rubrica di cose americane Lexington è dedicata proprio alla politica degli Stati Uniti sull’Iran. E contiene una riflessione più approfondita, seguita al recente incontro del presidente Obama con alcuni giornalisti, proprio allo scopo di aggiornarli sulle ultime evoluzioni della vicenda.

Prima di parlare degli ultimi sviluppi, Obama ha voluto ricordare ai giornalisti i passi fatti finora, raccomandando loro di osservare le sue mosse nella loro globalità, e non isolandole. Sappiamo che la prima mossa dell’amministrazione è stata distensiva: un tentativo di coinvolgere l’Iran direttamente attraverso messaggi pubblici e privati. Obama rivendica di averlo fatto non perché si fosse illuso riguardo la natura e le intenzioni del regime bensì per dimostrare al mondo che gli Stati Uniti non erano “l’aggressore” ed erano disposti davvero a collaborare con l’Iran, se questo si fosse comportato ragionevolmente.

Non è andata così, e l’Iran non ha dato alcun seguito alle aperture di Obama. Che nel frattempo però era passato alla seconda fase: una campagna mondiale per enfatizzare l’importanza della non proliferazione nucleare. Quindi l’organizzazione della revisione del trattato di non proliferazione, rivelatasi un successo. Si arriva quindi alla terza fase: il nuovo inizio nei rapporti con la Russia (vi ricordate il tastone di reset?)

Questa era già di per sé una buona notizia, ma è stata progettata anche in relazione all’Iran. Solo guadagnandosi la fiducia della Russia gli Stati Uniti sono riusciti a convincere la Cina ad approvare sanzioni più dure al regime di Teheran. E le sanzioni dell’ONU hanno spianato la strada a quelle dell’Unione Europea, del Canada e degli stessi Stati Uniti.

Oggi Obama ci tiene a non alzare eccessivamente l’asticella delle aspettative: cambiare l’Iran non è facile. Ma gli iraniani, scrive l’Economist, hanno osservato con sorpresa la durezza degli Stati Uniti nella questione delle sanzioni. Il punto è che l’orgoglio nazionalista e ideologico che c’è dietro l’avventura nucleare non può essere indebolito da un calcolo di costi e benefici, come auspicano i promotori delle sanzioni. L’amministrazione Obama lo sa, e per questo il presidente dice di tenere in considerazione “tutte le opzioni disponibili” per impedire che l’Iran ottenga la bomba. La strada preferita è quella di un percorso a tappe, una via d’uscita che permetta al regime iraniano di dimostrare con gradualità l’abbandono del programma nucleare.

Diversi funzionari dell’amministrazione Obama hanno enfatizzato i risultati ottenuti diplomaticamente ed economicamente dalle sanzioni. Gli investitori stranieri sarebbero meno interessati al petrolio e al gas iraniano. L’Unione Europea ha approvato sanzioni molto più dure di quello che chiunque si sarebbe potuto aspettare. L’Iran aveva da tempo difficoltà a fare affari in dollari, adesso ha difficoltà anche a fare affari in euro. I cittadini iniziano a manifestare nervosismo e delusione, aggiungendo il loro malessere a quello degli studenti e degli intellettuali.

Quel che è certo è che lo stesso programma nucleare iraniano non se la passa benissimo. Gli impianti di prima generazione di Natanz funzionano ancora al 60 per cento del loro potenziale. Non si sa quando verranno installati quelli di seconda generazione. Se l’Iran dovesse espellere gli ispettori domani e mettersi a costruire la bomba, ci vorrebbe comunque almeno un anno prima di poter costruire anche un solo ordigno, probabilmente molto di più. Quindi? L’Economist sospende il giudizio, ma sottolinea che c’è una cosa importante che gli Stati Uniti sono già riusciti a ottenere.

Essere riusciti a dividere l’Iran dalla Russia è un successo indiscutibile, così come lo è essere riusciti a portare sia la Russia che la Cina a sostenere le sanzioni per l’Iran al consiglio di sicurezza. Vedremo se queste pressioni riusciranno a portare l’Iran a rinunciare alle sue ambizioni nucleari.