Se ne può fare a meno?

Il Corriere della Sera attacca il governo sulla mancata nomina di un ministro "che si occupi di industria"

L’imbarazzante caso dell’assenza di un ministro per lo sviluppo economico in un paese in crisi di sviluppo economico arriva stamattina sulla prima pagina del Corriere della Sera, ospitato da un fondo di Dario Di Vico intitolato “La scomparsa di un ministro”. La questione, come si sa, si è arricchita via via di successivi fallimenti:

1. nacque dalle dimissioni di Claudio Scajola travolto dallo scandalo dell’acquisto della sua casi con soldi di losca provenienza;

2. si è ormai trascinata per 90 giorni di un interim di fatto inesistente e implausibile, a fronte dei problemi economici del paese;

3. quando pareva in via di tardiva soluzione, il progetto di dare il Ministero a Paolo Romani si è arenato su robuste perplessità da parte del Presidente della Repubblica.

Scrive Di Vico:

Sono 90 giorni che Silvio Berlusconi ha l’interim del ministero dello Sviluppo economico. In meno tempo Jules Verne sosteneva che si potesse girare il mondo. Il governo invece ha solo girato intorno al problema senza risolverlo. Dimessosi Claudio Scajola, la maggioranza non è riuscita ancora a sostituirlo. Non è stata capace di pescare al suo interno o nella società civile una personalità che avesse physique du role e competenze, che godesse della stima degli industriali, che non fosse limitato nell’autonomia di giudizio da conflitti di interesse. È incredibile, ma pur vantando l’Italia tra i quattro e i cinque milioni di imprenditori le manca un Mister Industria!

Di Vico però affronta il tema non solo dal punto di vista del guaio politico e dell’inadeguatezza di chi lo gestisce, ma soprattutto per le sue implicazioni rispetto al ruolo che viene a mancare.

L’impressione è che la politica non abbia capito cosa sia successo in questi mesi e cosa ci aspetti in autunno. Grazie alla forza e al radicamento territoriale delle imprese abbiamo evitato la deindustrializzazione, siamo rimasti un grande Paese «offertista» dell’Europa. Dentro la recessione una fetta consistente delle aziende (comprese le piccole) si è nuovamente riorganizzata, ha rivoltato le fabbriche come fossero calzini, ha rivisitato l a struttura dei costi e in più ha cominciato a pensare che non si poteva più accontentare dei «vecchi» clienti. Tutto ciò ha creato le premesse perché l’export italiano ripartisse e iniziasse a conquistare quote di mercato laddove prima eravamo presenti solo simbolicamente. In parallelo si è aperta una vera discussione sul made in Italy, sulle norme per tutelarlo e sulle scelte da fare per riposizionarlo sui mercati globali.

La discussione sul “made in Italy” e sul suo “riposizionamento” a cui allude Di Vico, potrebbe essere tra l’altro molto interessante se prendesse in considerazione un articolo pubblicato due giorni fa dal New York Times a proposito di come l’Italia “privilegi la tradizione sulla crescita” nella sua strategia di identità industriale.

Gli economisti vedono in Italia un paese il cui settore dei servizi è dominato dalle corporazioni, che alzano i prezzi e le barriere di ingresso nelle professioni in crisi, come per esempio quella dei tassisti. E vedono una classe imprenditoriale timida. E vedono un sistema politico dedicato agli elettori più anziani che vogliono mantenere quel che hanno, anche se questo condanna la nazione ad anni di stasi.

Mentre, spiega invece Di Vico, in altri paesi ci si muove più vivacemente e si risponde alla crisi con strategie: buone o no si vedrà, ma strategie.

Intanto i nostri partner non stavano con le mani in mano. Segnatamente la Germania, che rispetto a noi ha un vantaggio eccezionale: la sua industria è complementare ai cinesi e non diretta concorrente. Solo per fare un esempio, la Volkswagen, che ha già 9 stabilimenti in Cina, sta progettando il decimo e l’undicesimo. Dunque, applaudiamo le nostre performance nell’export ma dobbiamo sapere che c’è bisogno di qualche riflessione in più, di chiarirsi le idee sul futuro del sistema produttivo, in sintesi di darsi una strategia. Se non altro perché sono molti i Paesi che hanno scelto come via d’uscita dalla recessione proprio l’accelerazione delle vendite all’estero e quindi non ci sarà abbastanza torta per tutti. Non chiamiamola «politica industriale» perché l’espressione evoca anatemi, ma di sicuro un governo — di qualsiasi orientamento — non può apparire afasico come nel caso Marchionne-Serbia.

Afasico: il governo italiano è apparso per tre mesi indifferente alla questione, preoccupato d’altro, come se lo sviluppo dell’industria fosse una priorità assai secondaria per quello che capiterà all’Italia negli anni venturi.

Invece in questi grigi 90 giorni il ministero dello Sviluppo è stato prima privato della possibilità di spendere e poi si è tentato in diversi modi di spogliarlo delle sue prerogative tramite uno spezzatino delle deleghe a favore di altri dicasteri. Per poco non si è arrivati a teorizzare che un Paese industriale può andare avanti senza un ministero che si occupi di industria. Ora non sappiamo se bisognerà aspettare settembre per conoscere il nome del successore di Scajola ma i dossier che si stanno accumulando sulla scrivania richiedono una presenza incisiva. È di ieri il dato-choc sul calo delle immatricolazioni di nuove auto e altrettanto preoccupante si presenta il secondo semestre 2010 della siderurgia. Per chi lo avesse dimenticato, auto e siderurgia sono i settori in cui operano le (restanti) grandi imprese italiane.