Esce oggi, pubblicato da Mattioli 1885, La classica faccia da pugile, un libro che raccoglie due racconti di Jack London sulla boxe, Una bistecca e Il messicano.
Jack London, nato a San Francisco nel 1876 e celebre autore di Zanna Bianca, Il richiamo della foresta, I ricordi di un bevitore, e Il tallone di ferro (per citare solo i più conosciuti) conosceva bene il mondo della boxe. Oltre ad essere lui stesso un pugile dilettante, aveva ottenuto fortuna come cronista sportivo (dopo aver lavorato come strillone di giornali, cacciatore di foche, corrispondente di guerra, agente assicurativo, contadino e cercatore d’oro), firmando noti reportages sui principali incontri di boxe dell’epoca.
Negli anni in cui London scriveva, la boxe stava attraversando una significativa fase di riorganizzazione, passando ad un nuovo sistema di regole che si proponevano di metter ordine in uno sport dalle tradizioni millenarie, che da competizione elitaria stava velocemente trasformandosi in sport di massa; i testi di London rendono conto di questa trasformazione.
Come ricorda Mario Maffi nell’introduzione ai racconti, la boxe, poi, permette a London di mettere in risalto la sua «capacità di far filtrare attraverso le sue storie alcuni importanti nodi socio-culturali della realtà contemporanea». Il pugilato diventa una grande metafora che permette all’autore di trattare in via indiretta, ma chiara, alcuni dei temi a cui tiene di più: il rapporto tra l’individuo e le masse, la lotta per la sopravvivenza e le leggi del vivere.
Queste sono le prime pagine del racconto Una bistecca.
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Con l’ultimo pezzetto di pane, Tom King ripulì il piatto del sugo che vi rimaneva.
Poi, s’infilò il pane in bocca e prese a masticarlo lentamente, con aria assorta. Quando infine s’alzò da tavola, lo fece con la netta sensazione di non aver mangiato abbastanza. Pure, era stato l’unico della famiglia a toccar cibo; i bambini erano stati messi a letto nella stanza accanto perché s’addormentassero dimenticando d’aver saltato la cena, e sua moglie gli aveva fatto compagnia a tavola, seduta in silenzio a osservarlo piena d’ansia, senza mangiare: una donna della classe operaia, esile e dall’aria stanca, sfibrata, sebbene sul volto recasse ancora i segni di una passata bellezza. La farina per il sugo l’aveva presa a prestito dal vicino che abitava in fondo al corridoio, il pane l’aveva comprato con gli ultimi spiccioli che le erano rimasti.
Tom sedette accanto alla finestra, su una vecchia seggiola sgangherata che protestò sotto il suo peso, e meccanicamente s’infilò la pipa in bocca; poi, prese a frugarsi nella tasca della giacca, ma, non trovandovi il tabacco, si rese conto del proprio gesto e scosse la testa, quasi irritato per la sbadataggine che tradiva. Ripose la pipa. I suoi movimenti erano lenti, quasi impacciati, come se il peso stesso dei muscoli gli gravasse su tutto il corpo. Era un uomo massiccio dall’aspetto solido, tutt ’altro che attraente. Indossava abiti vecchi e informi, comprati a poco prezzo; la tomaia delle scarpe era troppo leggera per reggere la pesante risolatura di data non recente; e la camicia di cotone, un capo a buon mercato, aveva il colletto logoro e parecchie macchie di vernice ormai impossibili da togliere.
Ma era la sua faccia a rivelare in modo evidente chi fosse Tom King e che cosa facesse. Era la classica faccia del pugile, uno che alle spalle aveva ormai anni e anni di battaglie sul ring e dunque aveva sviluppato i tratti caratteristici dell’animale da combattimento, esasperandoli al massimo. Aveva lineamenti rozzi e – quasi a evitare che anche solo un loro tratto potesse sfuggire all’osservatore – s’era rasato di fresco. Le labbra erano informi e disegnavano una bocca dalla piega esageratamente aspra, un taglio attraverso il viso. La mascella era aggressiva, pesante, brutale. Gli occhi si muovevano lenti sotto le spesse palpebre ed erano privi d’espressione, incassati da sopracciglia folte e rientranti.
Era in tutto e per tutto un vero animale e il tratto più animalesco del suo aspetto erano proprio gli occhi, sonnacchiosi come quelli di un leone, gli occhi di una belva abituata a battersi. La fronte fuggiva veloce verso l’attaccatura dei capelli che, tagliati corti, rivelavano tutte le bozze tipiche d’un autentico bruto. Completavano il suo aspetto esteriore il naso rotto due volte e variamente rimodellato da un’infinità di brutti colpi successivi, e un orecchio eternamente gonfio come un cavolfiore, deforme fino a raggiungere due volte le dimensioni d’un orecchio normale; mentre la barba, per quanto rasata di recente, stava già rispuntando sulla pelle e dava al viso una nota bluastra.
Nell’insieme, era la faccia di un uomo che, a incontrarlo in un vicolo buio o in un luogo solitario, fa paura. Ma Tom King non era un criminale, non aveva mai commesso nulla di criminale. Tranne che in qualche rissa occasionale, ingrediente inevitabile della vita che conduceva, non aveva mai fatto del male a nessuno. E non aveva la nomea d’uno che si lasciava andare a menar le mani facilmente. Era solo un professionista del ring, e la brutale aggressività ch’era in lui era come tenuta in serbo per le apparizioni pubbliche.
Una volta sceso dal quadrato, era un uomo tranquillo, di buon carattere e, quand’era stato giovane e il denaro non mancava, aveva avuto la tendenza a lasciarselo sfuggire un po’ troppo facilmente per ricavarne nulla di buono per sé. Non aveva nemici, non nutriva odii o invidie. Il combattimento era un lavoro, per lui. Sul ring, colpiva per far male, per ferire, per distruggere; ma in ciò non mostrava animosità o cattiveria. Era solo un lavoro. I tifosi facevano ressa, pagavano per vedere lo spettacolo di
due uomini che cercavano di mettersi K.O. E il vincitore si pigliava la fetta più grossa dell’incasso.
Quando Tom King aveva incontrato l’Accecatore di Woolloomoolloo, vent ’anni prima, sapeva benissimo che il suo avversario era guarito da soli quattro mesi da una brutta frattura alla mascella, subita durante una rissa a Newcastle: e per tutto l’incontro aveva mirato a quella mascella e finalmente, al nono round, gliel’aveva fracassata di nuovo. Non perché ce l’avesse con l’Accecatore, ma perché quello era il modo più sicuro di metterlo fuori combattimento e di portarsi a casa la fetta più consistente dell’incasso. E d’altra parte, nemmeno l’Accecatore gliene volle. Era parte del gioco. Lo sapevano tutt ’e due, e lo giocavano.