Questa intervista a Julian Assange, gestore dell’organizzazione Wikileaks che ha fornito i documenti segreti sull’Afghanistan, è stata pubblicata sull’edizione italiana di Wired di aprile 2010 (alla vigilia del festival del giornalismo di Perugia a cui Assange non poté poi partecipare per le ragioni di sicurezza che lo stanno tenendo molto alla larga dalle occasioni pubbliche). Il progetto islandese di cui si parla è stato nel frattempo approvato dal parlamento ed è in corso di attuazione legislativa.
Da quattro giorni rincorro Julian Assange, che mi risponde puntualmente a ogni mail confermandomi un’intervista, ma glissa ogni volta sui tempi e modi. Non so dove chiamarlo, mi ha chiesto i miei numeri e contatti: sto per andare a cena quando ricevo da Skype questo messaggio:
hi luca
this is iceland
can you respond?
“Iceland?”. È uno dei soliti spammers su Skype? E come fa a sapere come mi chiamo? E poi realizzo e mi ricordo i titoli “Iceland aims to become an offshore haven for journalists”: l’Islanda mira a diventare un rifugio sicuro per i giornalisti. Faccio due più due: è Assange. Rispondo, e mi appare in video la faccia da attore e la chioma platino inconfondibile.
Ciao, come va?
Bene, grazie. Dove sei?
Sono in Islanda.
Per quel progetto?
Sì. Su quattro tappe, siamo alla due.
Ovvero?
Ovvero c’è una proposta di legge firmata da 19 parlamentari perché l’Islanda accolga tutta una serie di misure protettive della libertà di stampa e informazione e incentivi che le consentano di diventare un equivalente dei paradisi fiscali per il giornalismo investigativo. In Islanda il parlamento ospita 63 deputati, quindi parliamo di un terzo di loro. E ora una commissione sta esaminando la proposta.
Cosa succede se la proposta diventa legge?
Che l’Islanda creerà un precedente e un modello per gli altri stati, soprattutto quelli che hanno regole più severe contro il giornalismo d’inchiesta e la libertà di informazione. In Inghilterra guardano con molta preoccupazione a questo progetto: la rigidità delle sue corti ha creato un fenomeno noto come il “turismo della querela”: da tutto il mondo si presentano cause contro i giornali in Inghilterra dove è più probabile vincerle. L’Inghilterra, ma anche la Francia, dove i conflitti sociali sono più aspri e i poteri economici più forti, hanno più interesse a limitare la libertà di stampa. In Islanda, soprattutto dopo il crack economico, c’è invece una grande attenzione verso una maggiore trasparenza.
Wikileaks come è coinvolta?
Stiamo collaborando con i promotori della legge, condividendo la nostra esperienza di perseguitati da cause e tribunali.
Alla fine dell’anno scorso Wikileaks ha sospeso le operazioni ed è entrata in sciopero…
No, non siamo mai stati in sciopero…
Sono parole tue, le ho lette in un’intervista.
Ok, abbiamo cercato di promuovere uno sciopero interno, diciamo. I costi per far funzionare Wikileaks sono diventati insostenibili e abbiamo spinto i volontari che ci lavorano a concentrarsi solo sulla raccolta di fondi.
E a che punto siete? Il sito mi pare a mezzo servizio.
Siamo a metà strada nella raccolta dei contributi che avevamo stabilito (600mila dollari, ndr), oltre metà strada: stiamo lavorando a rimettere tutto in piedi
Adesso cosa funziona?
Abbiamo ripreso a pubblicare dei documenti e lavoriamo costantemente nella protezione dei nostri server, dei nostri archivi e della sicurezza delle fonti. Abbiamo molti documenti che costituiranno le cose più importanti che abbiamo mai pubblicato. Video, database, elenchi.
Puoi dire che tornerete a pieno regime in qualche mese?
Stiamo già ripristinando diverse cose, gradualmente torneremo in servizio completo: questione di settimane.
Sei soddisfatto di come ha funzionato Wikileaks in questi anni?
Il suo successo me lo aspettavo. Ma sul rapporto con i media tradizionali sono ancora molto insoddisfatto. Non riescono a pubblicare tutto quello che gli diamo: e solo i media tradizionali hanno il tempo e i soldi per coprire i costi di tutte le verifiche e la competenza per comprendere i documenti e le storie. Non è una cosa che possa fare “internet” o le persone normali. Ma i grandi media hanno sempre paura di non essere abbastanza sull’attualità: ci saltano sopra solo nel momento in cui facciamo notizia. Possiamo diventare notizia grazie al pubblico, ai cittadini: che però spesso non hanno le capacità né le motivazioni di capire la notizia e possono “ammazzarla”.
Da qui la soluzione delle esclusive?
Il sistema dei media genera dei paradossi. Più materiale c’è e più è diffuso e più è difficile che trovi spazio sui giornali: meno una cosa circola e più è facile che i giornali ci saltino sopra. Quindi trattiamo con alcuni di loro delle esclusive.
Ma diffidi dei dilettanti perché non hanno le capacità giornalistiche necessarie o perché non sono in grado di promuovere le notizie abbastanza?
Dobbiamo stare attenti, se scrivono delle tue cose i dilettanti ci sono più rischi che non le capiscano, le divulghino male e chi è chiamato in causa faccia causa o protesti. Su questo non ho dubbi: il giornalismo investigativo è roba da professionisti, solo loro possono venire a capo delle enormi quantità di documenti che noi mettiamo a disposizione.