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Lo scandalo Profumo non morirà mai

Ted Stevens, noto ex-senatore americano, è morto l'altro ieri in un incidente aereo in Alaska assieme ad altre quattro persone. Il mese scorso un cargo militare si è schiantato nei pressi di Anchorage. A giugno un Cessna è precipitato ancora vicino ad Anchorage. A gennaio un altro aereo è caduto vicino a San Point, sempre in Alaska, causando la morte di due persone.

Ma perché gli aerei cadono così spesso in Alaska? Spiega Slate che ci sono innanzitutto due ragioni di ordine generale: cattive condizioni atmosferiche, e terreno accidentato. Le tempeste in Alaska sono all'ordine del giorno con venti che arrivano a raggiungere velocità di ottanta chilometri orari, e gli aerei sono spesso costretti ad atterrare su terreni montagnosi e oscurati dalle nubi.

E poi c'è la Bush Syndrome. In Alaska vengono detti bush, cespugli, i villaggi più remoti che necessitano di aerobus per ricevere visite e scorte alimentari. Sembra che i piloti di questi piccoli velivoli – l'Alaska è lo Stato col più alto tasso di persone con il brevetto di volo, e gli aerei privati sono un diffusissimo mezzo per spostarsi – tendano a volare in maniera poco prudente e maturino una guida spesso spericolata e sprezzante delle condizioni esterne: la Bush Syndrome.

Anche i mezzi tecnici non aiutano gli aviatori affetti dalla sindrome: spesso gli aerei che guidano, a differenza di quelli commerciali, hanno un solo motore, e in caso di guasto non ce n'è uno di riserva. E le infrastrutture creano diversi problemi: non è raro che un pilota si trovi a scendere su piste d'atterraggio in ghiaia o in terriccio, dove l'aereo può slittare, specie se la superficie è ghiacciata. Talvolta l'unico luogo dove atterrare è un lago o uno specchio d'acqua: e un terzo di tutti gli incidenti riscontrati nelle fasi di decollo o atterraggio sono causati da aerei predisposti per le superfici acquatiche.

Negli ultimi dieci anni in Alaska ci sono stati 1188 incidenti contro una media degli altri Stati di 351. Il dato è talmente sproporzionato rispetto alla media nazionale che l'istituto federale che si occupa dell'aviazione dedica un capitolo a parte agli incidenti in Alaska. Grazie alle nuove misure di sicurezza l'obiettivo per il 2009 era quello di ridurre il numero di incidenti in Alaska a non più di 99: sono stati 100.

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

Quando fu condannato a morte per la prima volta, James Fisher aveva vent'anni. La sua storia fino a quel momento era stata simile a quella di altri ragazzi americani poco fortunati. Abbandonato da bambino, affidato a qualche parente, rispedito da un padre violento, dimenticato in un orfanotrofio di New York. Arrivò ad Oklahoma City che aveva poco più di sedici anni. Lì, il 12 dicembre del 1982, un uomo bianco di nome Terry Neal fu ucciso nel suo appartamento con il vetro di una bottiglia. Dell'omicidio fu accusato un ragazzo, che da quelle parti era molto conosciuto perché viveva per strada. Ma poi l'accusa improvvisamente cambiò. E James Fisher divenne l'imputato numero uno. L'altro ragazzo aveva detto alla polizia che lui non c'entrava niente, che era stato Fisher a uccidere quell'uomo. Terry Neal li aveva rimorchiati per strada e li aveva portati nel suo appartamento per fare sesso, ma poi qualcosa era andato storto.

L'incredibile storia del processo contro James Fisher  - e della sua lotta per la libertà durata ventisei anni - è raccontata oggi sulle pagine del New York Times. Fisher, di origine afro-americana, fu arrestato nello stato di New York e rispedito in Oklahoma, dove fu accusato di omicidio di primo grado. Si dichiarò innocente. Ma il suo avvocato non lo aiutò per niente: E. Melvin Porter, sostenitore dei diritti civili e primo afro-americano eletto al Senato nello stato di Oklahoma, più tardi spiegò che all'epoca aveva una vera e propria repulsione per gli omosessuali, che li considerava tra gli esseri più spregevoli al mondo e che Fisher era un cliente ostile.

Una nota scritta da una Corte Federale durante uno dei processi d'appello scrisse che "l'avvocato Porter sembrava non volere o non essere capace di portare alla luce le lacune dell'accusa, ma che invece fu particolarmente solerte nel mettere in dubbio la testimonianza del suo assistito". Espresse dubbi e ostilità nei confronti del suo cliente e non riuscì neanche a presentare un'arringa finale con cui difenderlo, nonostante le accuse non fossero difficilmente contestabili. Quando arrivò il momento di chiedere la grazia ai giudici - di fronte alla possibilità di una condanna a morte - Porter pronunciò solo nove parole: quattro erano parole di circostanza, con le altre cinque formulò una debole obiezione all'arringa conclusiva dell'accusa. James Fisher, vent'anni, fu condannato a morte.

Gli anni passarono e i ricorsi in appello continuavano ad essere negati. James Fisher stava 23 ore al giorno nella sua cella nel braccio della morte e spesso veniva relegato in una cella speciale d'isolamento. Intanto i suoi problemi psicologici aumentavano e il suo comportamento iniziò a diventare sempre più autolesionista. Solo dopo diciannove anni una Corte d'Appello Federale ribaltò la sentenza sulla base di "ineffective assistance of counsel": assistenza legale inefficace. Nel 2005 fu processato per la seconda volta, ma solo per rivivere lo stesso incubo. Questa volta fu il turno dell'avvocato Johnny Albert, che in seguito confessò che ai tempi del processo abusava di alcool e cocaina e che quindi trascurava molto i casi che stava seguendo. Una volta litigò così violentemente con Fisher che arrivò a minacciarlo, al punto che Fisher si rifiutò di presentarsi in aula.

Secondo quanto appurato in seguito, l'avvocato Albert ignorò del tutto i documenti che potevano sostenere la linea difensiva di Fisher. Non riuscì nemmeno a ottenere che durante il processo fosse ascoltato il testimone chiave dell'accusa, quel ragazzo che viveva per le strade di Oklahoma City e che per primo era stato accusato di quell'omicidio. Quel ragazzo che nel frattempo era diventato un uomo con una fedina penale da criminale. James Fisher fu di nuovo condannato a morte. Ma questa volta passò solo un anno prima che la Corte d'Appello Federale dell'Oklahoma ribaltasse di nuovo la sentenza.

Solo allora Fisher è riuscito finalmente ad avere un avvocato - Perry Hudson - che lo ha aiutato davvero e che dopo 26 anni lo ha fatto uscire di prigione. Per tornare libero, ha dovuto patteggiare e dichiararsi colpevole per omicidio di primo grado. Ha anche dovuto giurare che non rimetterà mai più piede in Oklahoma. Ad aspettarlo fuori dal carcere c'era Sophia Bernhardt, avvocato di 31 anni della Equal Justice Initiative, una organizzazione no profit che si batte per i diritti legali delle persone più povere. L'ha portato a mangiare insieme all'avvocato Hudson in un diner lì vicino. Poi sono partiti in macchina verso il Texas: le autorità volevano che Fisher lasciasse lo stato entro la sera stessa. A Dallas li ha accolti Stanley Washington, 60 anni, anche lui della Equal Justice Initiative. Anche lui liberato dopo un processo sommario e dopo 14 anni passati in un carcere dell'Alabama. Insieme Fisher e Washington hanno proseguito il viaggio verso la sua nuova casa a Montgomery, Alabama, dove ora Fisher dovrà seguire un programma di reinserimento e iniziare una nuova vita, a 46 anni.

(Foto di Nicole Bengiveno)

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

Repubblica ricostruisce oggi la storia del contenzioso fiscale tra lo Stato e la Mondadori e del modo in cui è stato di recente concluso: una legge che riduce evita all'azienda il rischio (un rischio, non una certezza) di una sentenza da 173 milioni pagandone 8,6.

Legge salva-Mondadori doveva essere e legge salva-Mondadori è stata. La casa editrice controllata dalla Fininvest si avvia a chiudere con una mini-transazione da 8,6 milioni un contenzioso quasi ventennale in cui l'agenzia delle entrate le contestava il mancato pagamento di 173 milioni di tasse evase nel '91, in occasione della fusione tra Amef e Arnoldo Mondadori. Segrate ha già contabilizzato a tempo di record nella sua semestrale il versamento della sanzione per calare il sipario sulla partita con l'amministrazione finanziaria "grazie al decreto legge 25 marzo 2010 n. 40 sulla chiusura delle liti pendenti". Si tratta  -  in soldoni  -  del cosiddetto "Lodo Cassazione", un provvedimento contestato dall'opposizione per il macroscopico conflitto d'interessi del premier che consente di archiviare i processi tributari arrivati in Cassazione con due sentenze favorevoli al contribuente mediante il pagamento del solo 5% del valore della lite.

(continua a leggere sul sito di Repubblica)

Ma secondo il Fatto i giochi non sono ancora chiusi, e un ricorso a Strasburgo contro la validità della legge potrebbe annullare la soluzione.

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

La coalizione di governo tedesca guidata da Angela Merkel dovrà affrontare presto la spinosa questione dell'energia nucleare. Alcuni dei suoi alleati le stanno infatti chiedendo di estendere il funzionamento dei reattori nucleari presenti nel paese per altri quattordici anni a partire dal 2012, data in cui al momento è prevista la loro progressiva dismissione. Il settimanale tedesco Spiegel spiega di che cosa si tratta.

Il piano di dismissione fu deciso nel 2002 dall'allora governo di centrosinistra dei Verdi e dei Socialdemocratici. Il governo di centrodestra della Merkel non vuole abolire quel piano perché sa bene che in Germania gran parte dell'elettorato è contro il nucleare. Ma allo stesso tempo lo vuole posticipare per avere accesso a energia nucleare a basso costo più a lungo. Inoltre crede che solo la possibilità di contare ancora per un po' di anni sul nucleare potrà permettere alla Germania di rispettare i suoi limiti di emissione di CO2.

La strategia però potrebbe creare non pochi conflitti con il Ministro per l'Ambiente Norbert Roettgen, che ha proposto un'estensione del funzionamento dei reattori al massimo tra i quattro e gli otto anni. Secondo lo Spiegel, Roettgen - membro dell'Unione Cristiano Democratica (CDU) - vuole che l'estensione sia il più breve possibile perché sa che solo con una scadenza imminente alle porte il governo si dedicherà davvero alla stesura di un piano di sviluppo per le energie rinnovabili.

La decisione sull'estensione del programma nucleare è attesa per il prossimo autunno, quando il governo presenterà il suo programma di lungo termine sulla produzione di energia. Il numero di anni che verrà stabilito dirà molto sulla velocità con cui la Germania andrà incontro al processo di modernizzazione delle sue politiche energetiche e probabilmente deciderà anche il destino politico di Roettgen. Il ministro al momento è visto da molti come il prossimo potenziale cancelliere tedesco, ma il suo atteggiamento intransigente - arrogante per alcuni dei suoi alleati - gli potrebbe alienare la possibilità di essere candidato come successore della Merkel.

I maggiori oppositori al piano di dismissione proposto da Roettgen sono proprio all'interno del suo partito, soprattutto nella sezione regionale del Baden-Wuerttemberg e della Baviera. Ma anche all'interno del Ministero dell'Economia, guidato da un esponente della FDP (Partito Liberale Democratico). Molti accusano Roettgen di non lavorare più al servizio del suo governo ma di avere già iniziato a preparare il terreno per il prossimo, quello in cui lui spera di diventare premier con una coalizione formata da CDU e Verdi.

In ogni caso il piano di estensione non sarà facile da far passare, perché richiederà l'approvazione finale del Consiglio Federale - l'organo che rappresenta le regioni - dove la coalizione della Merkel non ha più la maggioranza da quando ha perso le elezioni nello stato della Rhine-Westphalia lo scorso 9 maggio. E probabilmente richiederà l'intervento finale da parte della Corte Costituzionale Federale.

In più, il governo sarà chiamato a presentare un piano energetico capace di soddisfare molti obiettivi: ridurre drasticamente le emissioni di CO2, mantenere il prezzo dell'elettricità accessibile, evitare tagli energetici. La Merkel dovrà trovare il numero magico: il numero di anni che non bloccherà lo sviluppo delle politiche per le energie rinnovabili, che non metterà in imbarazzo il Ministro dell'Ambiente, che non causerà una rottura nella sua coalizione e che non sarà fermato dalla Corte Costituzionale.

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

Foreign Policy li definisce i più potenti. Forse – proprio per la loro condizione di detenuti – alcuni di loro non possono essere considerati propriamente tali, ma è fuor di dubbio che le loro figure abbiano una notevole influenza sulle sorti dei Paesi in cui sono incarcerati, e talvolta anche all'estero. Dissidenti, prigionieri politici, terroristi, criminali, o un misto di tutto questo, si tratta dei cinque detenuti più importanti al mondo.

«Usate la vostra libertà per promuovere la nostra»
a Emma Bonino, nel 1996

AUNG SAN SUU KYI

Birmana, 55 anni, agli arresti dal 1990, è probabilmente la più importante dissidente al mondo dai tempi della detenzione di Nelson Mandela. Premio Nobel per la pace nel 1991, le sono permesse poche e vigilatissime uscite, per questo la si vede molto raramente in pubblico. Come segno di rispetto è detta la Dama.

Figlia di un generale del Partito Comunista Birmano, la sua famiglia è sempre stata al centro delle vicende politiche del proprio Paese. Da giovane studiò a New Delhi e poi a in Inghilterra, per poi cominciare a lavorare alle Nazioni Unite.

Ritornata in Birmania nel 1988, proprio nel mezzo delle grandi manifestazioni studentesche di protesta di quell'anno, fondò la Lega Nazionale per la Democrazia in risposta alla presa di potere di una nuova giunta militare. Fu arrestata per la prima volta nel 1989 con l’accusa di costituire un «pericolo per lo stato».

Quando l’anno dopo i capi della giunta decisero di concedere libere elezioni per sancire la propria ascesa al governo, il suo partito ottenne una schiacciante vittoria con più dell’ottanta percento dei voti nonostante la sua assenza. I militari annullarono i risultati.

Negli anni che seguirono, Aung San Suu Kyi è stata più volte messa in semi-libertà, per essere però sempre ri-arrestata. Privata di quasi ogni forma di comunicazione con l'esterno, dal 2003 si trova agli arresti domiciliari, dopo che il suo mandato d'arresto è stato esteso per la terza volta: fattispecie contraria sia alle leggi birmane che a quelle internazionali.

Influenzata dal pensiero di Gandhi, si è sempre fatta promotrice del principio della nonviolenza come cardine di ogni movimento di dissenso. In conseguenza di questo atteggiamento le fu conferito, nel '91, il Nobel per la pace come riconoscimento della "sua lotta nonviolenta per la democrazia e i diritti umani". Ha usato il premio in denaro assegnatole dall'accademia norvegese per istituire una fondazione che vuole contribuire a incentivare l'educazione e la sanità dei giovani birmani.

Dagli arresti domiciliari a cui è costretta ha continuato a essere il punto di riferimento dell'opposizione alla dittatura. Nell'ultimo periodo le sue aperture alla giunta militare hanno fruttato solamente l'umiliazione di vedersi rifiutate le più elementari concessioni, cosa che ha portato alcuni dei suoi sostenitori a chiederle di ripensare l'intero contegno della propria protesta.

«Non sono un terrorista, ma neanche un pacifista»
sul Washington Post, nel 2002

MARWAN BARGHOUTI

Palestinese, 51 anni, in carcere in Israele dal 2002 dove sconta cinque ergastoli. Nonostante la condanna e la detenzione, è stato più volte menzionato quale unico possibile leader palestinese in grado di ricomporre la faida fra Hamas e Fatah. È forse il più intransigente fra le figure di spicco della politica palestinese che accettano l'esistenza di Israele.

Nato nell'attuale Autorità Nazionale Palestinese, allora occupata dalla Giordania, si arruolò ben presto con Fatah, di cui a quindici anni contribuì a fondare il movimento giovanile. A diciott'anni subì il primo arresto da parte della polizia israeliana per il suo coinvolgimento nei gruppi militanti palestinesi.

Durante la prima Intifada, nel 1987, divenne uno dei capi dell'insurrezione e fu nuovamente arrestato ed espulso in Giordania dalle autorità israeliane. Al di là del Giordano continuò a lavorare per Fatah e ad affermarsi come uno dei leader del movimento al fianco di Yasser Arafat.

Nel 1994 fu uno dei principali promotori degli Accordi di Oslo, il primo – e forse tuttora unico – passo di riconoscimento reciproco fra Israele e Palestina. Accusato per questo di compromissione con il nemico dai più oltranzisti, rispose che si trattava di un atto necessario e inevitabile. L'accordo prevedeva anche la fine del suo esilio.

Rientrato in Palestina prese la guida di Tanzim, il braccio militare di Fatah. Pochi mesi dopo venne eletto al parlamento palestinese dove iniziò una campagna contro la corruzione presente all'interno del proprio partito. Tale battaglia gli fece guadagnare credibilità fra la gente comune, ma lo portò a uno scontro sempre più acceso con il leader indiscusso di Fatah, Arafat.

Quando nel 2000 scoppia la seconda Intifada, Barghouti – dalle file dei Tanzim – dà vita alle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, organizzazione riconosciuta come terroristica da USA e UE, responsabile di numerosi attacchi contro militari e civili in Israele. Per quanto Barghuthi abbia sempre detto di approvare soltanto attacchi contro obiettivi militari e nei territori occupati da Israele nel '67, il gruppo militante ne compie sia all'interno dello Stato Ebraico che contro civili, operazioni che gli valgono una rapida ascesa nella lista degli uomini più ricercati in Israele.

Nel 2002 viene arrestato dall'esercito israeliano e condannato a cinque ergastoli per aver autorizzato alcuni di questi attentati. Durante le udienze Barghouti rifiuta di difendersi sostenendo che il tribunale israeliano non abbia diritto a processarlo. Negli anni successivi alla condanna si è formato un forte movimento che ne chiede la liberazione. In più occasioni si è fatto il nome di Barghouti come quello del principale prigioniero da liberare nell'ambito dello scambio con Gilad Shalit, il soldato israeliano nelle mani di Hamas dal 2006.

Dalla detenzione Barghouti continua a gestire le proprie attività politiche per telefono ed è stato più volte rieletto in absentia al parlamento palestinese. È per questo che, nonostante la pena potenzialmente inestinguibile, Barghouti viene spesso citato –  sia nella comunità internazionale che in alcuni settori della società israeliana – come unico possibile leader in grado di poter ricomporre tutte le frazioni della società palestinese, e la lotta intestina fra Hamas e Fatah, sotto un'unica egida.

«Sicuramente gli americani mi uccideranno in carcere»
nelle sue ultime volontà, 1998

OMAR ABD AL-RAHMAN

Egiziano, 72 anni, in carcere negli Stati Uniti dal 1993 per il coinvolgimento in diversi atti terroristici. Ritenuto l'ispiratore del primo attentato al World Trade Center, è considerato il precursore di Bin Laden e la sua guida spirituale, oltre che l'iniziatore delle strategie terroristiche poi utilizzate da al-Qaida. In America è soprannominato "lo Sceicco Cieco".

Nei primi anni di vita perse la vista a causa del diabete, studiò una versione del Corano in Braille – il codice di scrittura per non vedenti – e si laureò in studi coranici all'università al-Azhar del Cairo, diventando ben presto una figura di riferimento dell'oltranzismo islamico sunnita.

Estensore di diverse fatwa nei confronti di chi avesse tradito – o offeso – l'Islam, assunse il ruolo di guida dell'al-Jama'a al-Islamiyya, gruppo terrorista islamico sulla scorta dell'ideologia religiosa dei Fratelli Mussulmani. Fu arrestato e torturato in Egitto per l'assassinio del presidente Sadat, colpevole – a suo dire – di essersi fatto beffe dei principî islamici nel firmare la pace, e il riconoscimento reciproco, con Israele.

Scagionato delle accuse di aver partecipato direttamente all'uccisione, fu espulso dal Paese con il pretesto di essere stato il "mandante ideale" dell'omicidio del Presidente. Rifugiatosi in Afghanistan, strinse rapporti con il Maktab al-Khidamat di Osama bin Laden, gruppo islamista impegnato nella guerriglia contro i sovietici che confluirà poi in al-Qaida.

Nel 1990 partì per gli Stati Uniti, a suo dire luogo d'origine di ogni male. Entrato negli USA con un visto turistico, l'autorità americana per l'immigrazione gli concesse lo status di residente permanente in qualità di leader religioso. Qui iniziò a predicare in diverse moschee newyorkesi l'annientamento dell'Occidente, patria di "sionisti, comunisti e colonialisti" e l'uccisione di tutti gli ebrei.

Fu arrestato nel 1993, e condannato all'ergastolo tre anni dopo con l'accusa di voler organizzare una guerra di terrorismo urbano in alcune grandi zone metropolitane degli Stati Uniti. Il piano considerato dai giudici il più impressionante  fu quello di piazzare cinque bombe, da far esplodere nell'arco di dieci minuti, in luoghi chiave dell'area urbana di New York. Si stima che questo attentato – se non fosse stato sventato – avrebbe potuto causare più vittime di quello dell'undici settembre di otto anni dopo.

Rahman ha sempre usato ogni processo in cui è stato imputato per lanciare anatemi e dichiarazioni di guerra, poi messe in pratica dai suoi seguaci in giro per il mondo. Nel 2005 il suo avvocato fu arrestato per aver fatto da punto di raccordo nelle comunicazioni fra il proprio cliente e diversi gruppi islamisti. Questi casi sono stati citati dai sostenitori della necessità che i terroristi siano processati, a porte chiuse, da tribunali militari.

A dispetto di quello che disse del trattamento che gli sarebbe stato riservato in carcere dagli americani – e dopo aver tentato più volte di attentare alla propria salute – è tuttora in vita.

«Certamente Putin non mi trova simpatico»
alla CNN, 2010

MICHAIL CHODORKOVSKIJ

Russo, 47 anni, detenuto dal 2003 in Siberia, è stato l'uomo più ricco di Russia prima che la sua compagnia petrolifera dichiarasse bancarotta. È stato arrestato per frode ed evasione fiscale, ma i motivi della sua detenzione sono di natura politica ed economica. Negli ultimi anni, anche per il suo potere economico, è sempre più considerato un punto di riferimento dell'opposizione a Putin.

Funzionario comunista nella Russia sovietica, si riciclò come imprenditore subito dopo le liberalizzazioni concesse dalla Perestroika di Michail Gorbačiov. Le sue amicizie all'interno del Partito Comunista gli fruttarono trattamenti di favore nell'avvio delle sue attività commerciali.

Aprì un locale, poi una società di import-export con cui si arricchì al punto da poter aprire la Menatep, una delle prime banche private in Russia. Con il denaro ottenuto attraverso le privatizzazioni – e i suoi legami con diversi membri chiave della Russia di Elstin, nella quale occupò anche il posto di vice-ministro dell'energia – il suo spirito imprenditoriale si fece sempre più aggressivo, culminando nell'acquisizione – favorita dal Cremlino – di Yukos, azienda petrolifera che fra la fine degli anni '90 e il 2003 conquistò sempre maggiori fette di mercato.

Con l'accrescere del proprio potere economico, Chodorkovskji cominciò a nutrire ambizioni politiche in prima persona, anche a causa dei non più così saldi legami con il potere politico dopo l'ascesa al potere di Vladimir Putin. Durante il periodo precedente le elezioni del 2003, Chodorkovskji cominciò a finanziare diversi partiti di opposizione a Putin, guadagnandosi l'inimicizia dell'allora presidente russo.

Mentre si discuteva la fusione fra Yukos e Sibnet, altra azienda molto importante nel campo energetico oggi nota come Gazprom, Chodorkovskji fu arrestato con le accuse di frode, peculato ed evasione fiscale. La fusione fra Yukos e Sibnet, che sarebbe risultata nel più grande gruppo energetico al mondo dopo ExxonMobil, fu così bloccata per via giudiziaria.

Chodorkovskji si dichiarò subito vittima di un processo politico, così come sostenuto anche da numerose organizzazioni indipendenti. Diverse associazioni per i diritti umani, oltre che il Dipartimento di Stato statunitense, hanno definito il processo iniquo e interessato: pressioni governative, accuse fabbricate a tavolino, sedute mosse nelle località più remote per tenere lontani i giornalisti, avrebbero condizionato il regolare svolgimento dei dibattimenti. La stessa sentenza del processo fu letta ad alta voce dai giudici – come d'uso in Russia – nella maniera più lenta possibile per far scemare l'interesse degli ascoltatori, risultando in quindici giorni di declamazione.

Chodorkovskji fu condannato a nove anni di lavori forzati in Siberia, in un campo di lavoro noto al tempo dell'Unione Sovietica per l'impossibilità di uscirne vivi. La pena fu ridotta a otto anni in un appello lampo celebrato in poche settimane per impedire al magnate, condannato soltanto in primo grado, di candidarsi alle elezioni e ottenere l'immunità parlamentare.

Proprio in prossimità del termine della pena per Chodorkovskji, prevista per la metà del 2011, un'altra causa – questa volta per appropriazione indebita e riciclaggio di denaro sporco – gli è stata intentata da un pubblico ministero che ha chiesto come pena ulteriori ventidue anni di carcere. Il processo è ancora in corso, e nessun verdetto è ancora stato rilasciato.

Nel frattempo Chodorkovskji, forse suo malgrado, è diventato il simbolo dell'opposizione democratica al regime di Putin e Medvedev. Alcuni media internazionali hanno parlato di una figura cambiata dalla detenzione e dalle lotte politiche che sono state mosse ai suoi danni, trasformandolo da un oligarca senza scrupoli a un prigioniero politico. Egli stesso, nei propri scritti dalla prigionia, ha parlato di un notevole cambiamento che lo ha portato a comprendere la necessità di un svolta umanitaria e democratica in Russia.

«Nel 2008 ne farò una delle prime 500 aziende al mondo»
a proposito di Gome, 2007

HUANG GUANGYU

Cinese, 41 anni, è in carcere dal 2008. Incriminato per corruzione, concorrenza sleale e commercio illegale, la sua condanna esemplare a quattordici anni di carcere – per quello che era l'uomo più ricco dell'intera Cina – è considerata un avvertimento agli imprenditori che operano sul mercato cinese.

La storia di Huang – come d'uso in cinese, il cognome si scrive prima del nome – è in qualche modo simile a quella di Chodorkosvky: a ventisette anni apre con il fratello una piccola attività chiamata Gome, dalla quale comincia la sua scalata.

L'azienda vende inizialmente capi di vestiario, poi si converte anche alle apparecchiature elettriche. All'inizio degli anni '90 è uno dei primi cinesi a pubblicizzare la propria attività, nel frattempo ingranditasi, sui media – un fenomeno piuttosto raro nella Cina del tempo, con le grandi capitalizzazioni ancora a venire.

Nel frattempo Huang stringe legami con importanti gruppi d'investimento cinesi e nel '97 diventa amministratore delegato della Pengrum Holding, che farà capo all'Eagle Investment Group.

Sfruttando questi contatti, allarga a sempre più settori l'attività della sua Gome, che diventa un colosso dell'industria cinese. Le riuscite manovre economiche lo fanno diventare – a metà degli anni 2000 – l'uomo più ricco della Repubblica Popolare Cinese.

Nel 2008 viene però arrestato dalle autorità cinesi che gli contestano numerosi reati economici. Sono in pochi a credere Huang del tutto innocente, dato che lo sfruttamento delle zone grigie della legislazione – così come il pagamento di tangenti – è pratica molto comune, quasi obbligata, fra gli imprenditori cinesi.

Ciò che ci si domanda è perché sia stato scelto proprio, o soltanto, Huang come obiettivo da colpire. Chi conosce il personaggio, parla di rapporti sbagliati su cui Huang avrebbe puntato, e lo dipinge come un eccellente imprenditore ma un pessimo politico, che non è in grado di mantenere relazioni con le persone giuste nelle posizioni di potere.

Dopo la condanna a 14 anni di carcere – comprensiva anche della confisca di suoi beni pari a circa venti milioni di euro – Huang si è dimesso dalla guida di Gome, ma continua a mantenerne la maggioranza del pacchetto azionario, combattendo – dal carcere – una battaglia legale e azionaria contro l'azienda americana Bain Capital per riacquisirne il controllo. La stessa azienda, pochi giorni fa, gli ha fatto causa per danni, a seguito delle ingenti perdite economiche causate dall'arresto dell'ex presidente.

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

La vistosa presa di distanza dell'ex sindaco di Milano Gabriele Albertini dal PdL e da Silvio Berlusconi si è fatta notare e ha generato impressioni da abbandono della nave, meraviglie e diffusi sarcasmi. Adesso si dice che Berlusconi stia cercando di recuperarlo, e una chance potrebbe essere persino quella di rimettere in discussione la ricandidatura di Letizia Moratti a sindaco di Milano - Albertini è stato molto critico sulla sua gestione - per ritirare in ballo il suo predecessore. Che d'altronde va alludendo a un suo rinnovato interesse per la città da settimane, e concedendo interviste con grande assiduità. Ma, se come è più probabile, Albertini volesse candidarsi contro Moratti, i guai per Berlusconi raddoppierebbero: a livello nazionale, un abbandono del PdL che fa notizia, e a livello locale, il rischio di perdere le elezioni milanesi.

Nel frattempo, nessuno parla più dell'imbarazzante caso dell'assenza del Ministro dello Sviluppo Economico: come ogni caso imbarazzante italiano, dopo un po' viene digerito. Dalle dimissioni di Claudio Scajola sono passati cento giorni, e la precipitazione che sembrava portare alla nomina di Romani si è estinta: l'interim è sempre di Silvio Berlusconi, che ha ben altro a cui pensare, pare.

A saldare le due emergenze e prendere alcuni piccioni con la stessa fava, al PresdelCons sarebbe venuta un'idea, secondo l'Unità. Riconquistare Albertini dandogli il posto di Scajola, et voilà. L'articolo dell'Unità non è, a dirla tutta, prodigo di elementi per dare concretezza a questa ipotesi: ma è vero che di un lavoro di Berlusconi per recuperare i rapporti con Albertini - che Berlusconi stesso promosse a sindaco di Milano - si parla da molte parti.

Non c'è fretta, comunque.

Aggiornamento: invece qualcuno torna a parlarne, del ministero mancante. Oggi sulla Stampa se ne illustrano ulteriori conseguenze preoccupanti.

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

Il 21 e il 22 agosto, nello storico Barker Hangar dell'aeroporto di Santa Monica, California, si terrà una gigantesca asta di oggetti di scena e cimeli di Lost.

Saranno messi all'asta oltre un migliaio di oggetti, compresi tutti i vestiti usati dagli attori durante le sei stagioni: prima dell'asta tutto il materiale sarà esposto per due giorni - biglietto d'ingresso: 40 dollari - in una sorta di museo di Lost che poi sarà impossibile replicare. Comprando il biglietto si compra pure un posto per l'asta, alla quale comunque si può partecipare anche per telefono o online, registrandosi per tempo su questo sito.

Si tratta davvero di un'asta notevole, anche al di là delle comprensibili nostalgie degli appassionati. La quantità di oggetti in vendita e sterminata e c'è praticamente di tutto: qualsiasi oggetto apparso durante le sei stagioni, qualsiasi vestito indossato dagli attori, tutto. Potete spulciare il catalogo per farvi un'idea, ma occhio che rischiate di passarci delle ore. La scheda di ogni oggetto comprende anche una valutazione di massima, così che ci si possa orientare prima dell'asta e decidere quanto spendere: comprare il furgoncino azzurro della Dharma vi costerà almeno 8 mila dollari, una cassa con 12 lattine di birra Dharma viene via a 200-300 dollari, che poi è il prezzo a cui potete acquistare la maggioranza degli oggetti.

Se avete tempo scaricate l'intero catalogo e leggetelo con calma: ci troverete carte d'imbarco, documenti ed effetti personali di tutti i personaggi, più un sacco di cose di cui vi siete dimenticati l'esistenza. Noi abbiamo selezionato per voi il meglio che abbiamo trovato.

La schedina vincente di Hurley - valore stimato: 600/800 dollari

La poltrona di lettura di Sawyer - valore stimato: 300/500 dollari

Un pezzo di fusoliera dell'Oceanic 815 - valore stimato: 3000/5000 dollari

La foto di Desmond e Penny - valore stimato: 300/500 dollari

Le manette di Kate - valore stimato: 300/500 dollari

La carrozzina di Locke - valore stimato: 400/600 dollari

La culla di Aaron - valore stimato: 400/600 dollari

La dinamite sulla Black Rock (con cassa inclusa) - valore stimato: 300/500 dollari

La botola! - valore stimato: 1000/1500 dollari

Il bastone di Mr. Eko - valore stimato: 1000/1500 dollari

La chitarra di Charlie, con custodia (quella dei flashback) - valore stimato: 400/600 dollari

Le statuette nigeriane (due casse, dodici statuette) - valore stimato: 400/600 dollari

La ruota - valore stimato: 600/800 dollari

L'anello nuziale di Jin - valore stimato: 400/600 dollari

Il bikini di Sun - valore stimato: 200/300 dollari

La bottiglietta che Jack usa per far diventare Hugo il nuovo Jacob - valore stimato: 300/500 dollari

L'abito di Kate al concerto - valore stimato: 200/300 dollari

I vestiti di Jack nell'ultima scena della serie - valore stimato: 200/300 dollari

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

Il commento di Luciano Gallino in prima pagina su Repubblica parte da un dato di fatto: la sentenza di reintegro dei tre operai della Fiom licenziati con scelta giudicata "antisindacale" era ampiamente prevedibile. E allora perché Sergio Marchionne e i suoi collaboratori - non certo degli sprovveduti, dice Gallino - hanno compiuto quella che scelta "che portava dritto contro un muro"?

Il quesito è d'obbligo, perché rispetto alla questione dei licenziati di Melfi i rischi cui Fiat va incontro sul piano giuridico ed economico con il piano di Pomigliano e ciò che vi ruota attorno sono molto più grandi. Il piano presentato ai sindacati nel maggio scorso ha fatto sorgere seri dubbi circa la possibilità che limiti il diritto di sciopero, e perfino il diritto di ammalarsi, giacché nel caso che la percentuale di assenteismo «sia significativamente superiore alla media» l'azienda - la sola a decidere quanti punti o decimi di punto siano significativi - si considera libera dall'obbligo di pagare le quote di malattia. Nelle discussioni seguite alla presentazione del piano l'ad Fiat si è poi più volte riferito alla possibilità che l'azienda fuoriesca dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Infine è spuntato il progetto di costituire una nuova società, la quale rileva gli impianti di Pomigliano e assume soltanto i lavoratori che accettano l'organizzazione del lavoro e i vincoli comportamentali del piano di maggio. Quanto basta per mobilitare folle di giudici del lavoro, avvocati, e lavoratori che per anni faranno causa all'azienda.

Insomma, se l'aria che tira è quella della sentenza di ieri, dice Gallino, non c'è tanto spazio per i progetti Fiati di smontare le regole sindacali: o se ce n'è, rischia di essere occupato da grane legali. E quindi daccapo, torna ovvia la domanda sulle ragioni Fiat nel tirare questa corda. La risposta più diffusa nei giorni di Pomigliano e della discussione sulle richieste Fiat per mantenere lo stabilimento era stata che Marchionne "ci stava provando", di fatto. Spararle grosse ed eventualmente fare un passo indietro per spostare il limite del consentito.

È stato un ballon d'essai, si dirà. Vediamo come va a finire, han pensato al Lingotto, e se le acque non si agitano troppo faremo un altro passo per portare in Italia condizioni di lavoro polacche. Oppure si è trattato dell'inizio d'una politica del carciofo. Tre o quattro licenziati oggi, pochi per scuotere l'indifferenza generale; cento o più domani, magari con la scusa che non volevano accettare i dettami della Manifattura di Classe Mondiale, come si richiederà a tutti i dipendenti della nuova Pomigliano, filiazione Fiat ma tenuta a distanza di braccio dalla genitrice.

Gallino ha però un'altra ipotesi: ovvero che Fiat se le stia cercando, e che quello che vuole ottenere sia una scusa per andarsene da un accordo che non ha mai voluto, o delle cui implicazioni si è resa conto strada facendo. Avrebbe addirittura voluto che fallisse quell'accordo, anche nel referendum

Ma la realtà potrebbe essere un'altra. Potrebbe darsi che la Fiat, a conti fatti, non abbia molta voglia di produrre la Panda in Italia. È una vettura piccola e semplice, che permette di guadagnare, quando tutto va bene, poche centinaia di euro per unità prodotta. È la vettura da produrre giusto in Polonia, in Turchia, o magari in Cina, cioè in paesi dove il costo complessivo del lavoro è da due a cinque volte più basso, e i sindacati di fatto non esistono. Ma per fare un passo indietro di notevole risonanza economica e politica la Fiat ha bisogno di buoni motivi. Pensava forse di trovarli nella resistenza dei sindacati, questi residui ottocenteschi di un mondo industriale che non c'è più, come tanti politici, oltre all'ad Fiat, li hanno definiti. Purtroppo per essa - ammesso che questo fosse il disegno - la resistenza dei sindacati quasi non c'è stata, visto che tre sindacati e mezzo hanno prontamente sottoscritto il lodo Pomigliano, né hanno battuto ciglio dinanzi alla prospettiva di una nuova società palesemente costituita allo scopo di poter scegliere i lavoratori che ci stanno.

E in questa luce, la sconfitta cercata che Fiat non ha ottenuto col referendum sarebbe arrivata ieri con la sentenza di reintegro.

Se alla fine il disegno Fiat fosse proprio quello di un ritiro motivato dalle difficoltà che si incontrano in Italia per produrre vetturette in modo competitivo a paragone di polacchi e serbi, e prima o poi di cinesi e indiani, quale miglior appiglio della sentenza di un giudice del lavoro che reintegra al loro posto tre operai accusati nientemeno che di sabotaggio? Il costo di questo singolo insuccesso legale è minimo. Ma può essere il punto di appoggio atto a sollevare la Fiat da un impegno che appare ogni giorno più scomodo. In un paese dove i giudici del lavoro si mobilitano in poche settimane per salvare dalla disoccupazione un gruppetto di operai, ci si deve dare atto - potrebbe aver ragionato l'azienda - che non si può andare avanti con la prospettiva di dover affrontare per un lungo futuro complicate vertenze con buon numero degli uni e degli altri. I licenziamenti di Melfi, apparentemente così incauti, cadrebbero allora al loro posto nella strategia della Fiat.

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

La sezione russa di Greenpeace ha parlato del rischio che piccole quantità di materiale radioattivo possano essersi diffuse nell'atmosfera a causa della fitta serie di incendi scoppiata in Russia nelle scorse settimane.

Le aree in cui ci sarebbe un pericolo di contaminazione sono quelle che subirono i maggiori danni nel disastro di Chernobyl di ventiquattro anni fa: negli ultimi giorni sono stati segnalati diversi incendi che avrebbero colpito le stesse zone. La preoccupazione espressa dall'associazione ambientalista è che le tracce radioattive tutt'ora presenti in superficie possano essere rilasciate dal calore delle fiamme e che, attraverso il fumo, possano diffondersi nell'aria, venendo poi trascinate dal vento.

La notizia – riportata dal New York Times – ha avuto risposte contraddittorie dalle autorità russe che hanno prima messo in guardia dallo stesso pericolo, negandone poi la reale consistenza: «tutto è a posto» ha detto un alto ufficiale nel campo medico. Naturalmente i rischi per le popolazioni non sarebbero lontanamente paragonabili a quelli occorsi a seguito dell'esplosione del reattore nucleare di Chernobyl, ma il pericolo che l'esposizione prolungata a forti fonti di calore possa contribuire a spargere residui radioattivi è scientificamente concreto.

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Lo scandalo Profumo non morirà mai

Lo scrittore e giornalista Christopher Hitchens è in cura per un cancro e si era raccontato già nelle settimane scorse. Ieri il sito dell'Atlantic ha messo online un'altra intervista con "Hitch" a cui ha partecipato anche Martin Amis, altro celebre giornalista e scrittore inglese

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Il Post è una testata registrata presso il Tribunale di Milano, 419 del 28 settembre 2009 - ISSN 2610-9980