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  • Mercoledì 21 luglio 2010

L’Italia defraudata della politica

Riflessioni sulla discussione pubblica britannica, e sulla sua ricchezza malgrado i tabloid

di Filippomaria Pontani

Nei giorni scorsi, alcuni di coloro che hanno letto le pruriginose novità relative alla figlia segreta del sindaco di Londra, Boris Johnson, avranno pensato di ridimensionare, o di relativizzare la portata e l’eccezionalità degli scandali italiani dell’estate 2009, tutti ancora in vario modo “vivi” nel tessuto comunicativo del Paese: le D’Addario, le Noemi, i Tarantini.

Vorrei però, a costo di sembrare superfluo, ribadire qui un invito “for drawing distinctions”. La vasta eco suscitata in Inghilterra dall’ennesima (e suprema) prova di dongiovannismo fornita dall’eccentrico uomo politico ha ovviamente fatto la felicità dei tabloid, ed è stata raccolta anche dai maggiori quotidiani d’Oltremanica, suscitando perplessità e censure non tanto per un malposto senso di pruderie («no sex we are British»), quanto per l’ovvio sospetto che instilla circa l’affidabilità pubblica di un personaggio tanto disinvolto nella vita privata. In effetti, l’esuberanza caratteriale o sessuale di alcuni vip (a cominciare dalla casa reale) è una costante della vita pubblica inglese (e non dal secolo scorso), e serve ad alimentare dibattiti e programmi in abbondanza, oltre che a calamitare la morbosa attenzione delle centinaia di migliaia di lettori del Sun: gli stessi, del resto, che tributano vette di share al Big Brother, importato in Inghilterra nel 2000 pochi mesi dopo l’esordio olandese su un canale chiamato (caso singolare) Veronica TV.

Tuttavia, raramente dietro questi scandali si possono intuire i contorni della truffa ai danni dello stato: quando ciò avviene, le conseguenze sono ben pesanti, come hanno mostrato di recente le dimissioni del ministro David Laws (coinvolto in una storia di frodi a beneficio del suo amante nascosto), o quelle temporanee cui è stato costretto il (pur incolpevolmente cornificato) premier della vicina Irlanda, Peter Robertson. Quando la pubblica censura per i vizi privati è stata più severa, valeva l’attenuante della provocazione grave: per esempio quando nel 2002 si è scoperto che il rigorista e moralista John Major – il cantore del “Back to Basics” (1993), che già ben poca fortuna aveva portato a tanti tories, miseramente colti in fallo dagli occhiuti media britannici – aveva intrattenuto per ben quattro anni una relazione segreta con la compagna (di partito) Edwina Currie.

Ma in generale il punto non è, o non è anzitutto, il verdetto pubblico sulla moralità privata degli individui (Johnson stesso è stato votato quando già la sua fama di donnaiolo era arcinota; e ha scalzato – si noti – un sindaco come Ken Livingstone “il Rosso”, noto anch’egli come bon vivant). Il punto sta nell’attendibilità complessiva del personaggio, e nella sua libertà da possibili ricatti. Questa è la ragione per cui scandali privati possono assumere proporzioni importanti, talora certo inquietanti, ma raramente vengono a toccare gangli decisivi della vita pubblica, e soprattutto del dibattito civile. Ecco, questa differenza volevo rimarcare: tornando – anche dopo pochi giorni – in un Paese immerso da tempi ormai immemorabili nei guai giudiziari, morali e finanziari del suo premier, in un Paese dove – con piena ragione, beninteso – la discusione pubblica verte su lenoni, sottane, cricche e faccendieri, non si può non notare d’acchito l’abissale differenza rispetto a un mondo nel quale le vicende personali hanno bensì il loro spazio (è in fondo la caratteristica della democrazia sin dai tempi di Aristofane), ma non ostacolano il libero svilupparsi del dibattito sulle questioni di merito che la politica dovrebbe affrontare.

In questo senso, dinanzi al declino della Francia, sempre più invischiata in scandali personali che tracimano in breve tempo, chabrolianamente, nell’ivresse du pouvoir (siamo passati dalle sanguinose implicazioni dello scandalo Elf e della «putain de la République» all’affaire Bettencourt, dove solo l’avanzata età della signora impedisce illazioni d’altro genere), in questo senso, dicevo, l’Inghilterra offre oggi un modello interessante. Se apriamo le pagine del Times, dell’Independent o del Guardian della prima quindicina di luglio (un periodo pur largamente colonizzato dai Mondiali di calcio, e poi dalla rocambolesca caccia al serial killer Raoul Moat nella campagna attorno a Newcastle: sport e cronaca, i piatti forti di tanta nostra informazione), troviamo in prima pagina: discussioni sull’andamento della campagna nazionale per la riduzione del 10% delle emissioni di CO2 (il programma “10-10”); riflessioni sul redispiegamento delle truppe in Afghanistan, che nasconderebbero l’intenzione del premier di uscire gradualmente dal pantano di quella guerra lasciando la responsabilità agli Americani; appelli in favore della donna iraniana condannata alla lapidazione, rilanciati poi in tutto il mondo e infine coronati da qualche provvisorio successo; grida d’allarme circostanziate sulla sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale alla luce dei nuovi tagli (il rapporto fra consultori e medici di famiglia, cui verrebbero delegate responsabilità quasi “manageriali”); più di tutto, la bagarre all’interno della Chiesa anglicana circa la possibile ordinazione episcopale di un sacerdote gay nella diocesi di Southwark a sud di Londra.

Per ognuno di questi temi non valgono tanto le dichiarazioni dei sottosegretari e dei capigruppo, ma il confronto – riproposto in varie salse da ogni sponda politica, dal Times quanto dal Guardian – tra il presente e il passato, nella fattispecie tra la campagna “10-10” e gli investimenti dell’ultimo decennio nelle energie rinnovabili (le pale eoliche del Devon non sembrano discendere dai medesimi lombi di quelle sarde); tra le mosse strategiche a Kabul e le annose collusioni dei servizi segreti britannici con i movimenti di estremisti islamici nel Medio Oriente; tra le riorganizzazioni degli ospedali e la politica del “targets and terror” con cui il Labour abbatté le liste d’attesa a partire dal 2000; tra la crisi dell’Università pubblica e le modalità dei finanziamenti statali agli Istituti di ricerca; tra i tagli all’edilizia scolastica e le condizioni di studio dei bambini da Londra allo Yorkshire; tra l’atteggiamento esitante dell’arcivescovo di Canterbury e l’OPA lanciata da Ratzinger sugli Anglicani scontenti dell’eccessiva modernizzazione della loro Chiesa.

Vorrei schivare la facile accusa di esterofilia: chi scrive ha in generale poca simpatia per il Regno Unito, e ancor meno ne nutre per il partito di Margaret Thatcher. Tuttavia, anche osservatori di sinistra rilevano come l'”aria nuova” portata dal voto di maggio abbia consentito l’emergere di una nuova generazione di politici (Cameron e Clegg sono entrambi quarantenni, e così il medesimo Johnson di cui sopra) che non sembra destinata a far rimpiangere la vecchia; si tratta in fondo di una dinamica non dissimile da quella già vissuta dal Paese all’epoca dell’avvento di Blair. Le mosse ufficiali di Cameron sul Bloody Sunday, sulla crisi finanziaria, sull’Afghanistan sono state per ora accorte e largamente condivise; soprattutto, il suo stile di rispetto verso l’opposizione, e talora di aperto apprezzamento verso il lavoro di singoli suoi membri, contribuisce a creare un clima compatto. Va da sé che il Paese è atteso da tempi duri e scelte impopolari, e che la luna di miele presto finirà; e va da sé che un aspetto centrale del problema inglese concerne la stessa selezione della classe dirigente, che procede – lì forse più che altrove – secondo i tipici canali degli héritiers bourdiesiani. Ma anche questo è oggetto di dibattito e di analisi, e capita che deputati dei Tories decidano – forse in un empito di demagogia, forse semplicemente per porre il problema – di non reclutare fra i propri sherpa (e possibili successori) laureati di Oxford o Cambridge; e capita che i sistemi di valutazione dei docenti delle scuole siano sottoposti ad analisi preventiva (e a critica, in specie per quanto riguarda la loro macchinosità) prima di essere promulgati, per il tramite di un dibattito pubblico che il nostro ministro dell’Istruzione sembra non concepire nemmeno.

Ecco: in tante materie (tutte quelle citate, e fra queste specialmente la questione del rinnovamento della classe dirigente) la sensazione prevalente per chi vive in Italia oggi è quella di essere defraudati di pezzi importanti della discussione pubblica, di vivere in un universo adiabatico dove lo show dei vizi privati sostituisce il governo dei problemi: forse perché, sic stantibus rebus, lo rappresenta meglio di ogni progetto.