Essere campioni del mondo non si inflaziona nel corso del tempo: capita solo a ventitre persone ogni quattro anni. In tutta la storia del calcio, meno di quattrocento persone. Tra quelli viventi c’è l’argentino Pedro Pablo Pasculli, nato a Santa Fe nel 1960 e per sette anni giocatore del Lecce. Fu lui l’autore del gol decisivo in Argentina-Uruguay, ottavi di finale dei Mondiali 1986 vinti appunto dall’Argentina.
Pedro, dove sei?
Sono a Lecce, ma sono in partenza: starò via per un po’. Mi sono arrivate offerte da club professionistici del Nord e vado ad incontrare i dirigenti. Vedremo cosa succederà…
Che offerte sono?
Mi vogliono come allenatore: ma non solo in Italia. C’è qualcosa anche in Svizzera: andrò a vedere di cosa si tratta.
Come mai sei rimasto in Italia dopo aver smesso di giocare?
Ci sono tante ragioni. Ho trascorso sette anni a Lecce, dal 1985 al 1992. Poi, ho chiuso la carriera facendo un’esperienza in Giappone: Lecce, per me, rappresentava un punto strategico, geograficamente parlando. Se fossi rimasto in Argentina, sarebbe stato tutto un po’ più complicato.
E poi cos’altro?
Ho sposato una ragazza leccese e nel 1989 avevo anche fatto qualche investimento qui: quindi ho deciso di stabilirmi nel Salento.
Come sono questi mondiali, visti da campione del mondo?
Per quello che ho visto fino ad ora, mi è piaciuta la Germania. Bel gioco, squadra quadrata, giocatori davvero interessanti: ma siamo solo all’inizio.
E della tua Argentina cosa ci dici?
Ha un potenziale grandissimo: ma deve migliorare nella fluidità del gioco. Diego deve ancora lavorarci: ma non è semplice fare l’allenatore. Anche se sei stato uno dei più grandi giocatori di sempre, allenare non è così automatico come ingranare una marcia. Serve esperienza, pazienza e molta applicazione.
Quando è stata l’ultima volta che hai visto Maradona?
Un paio d’anni fa: è stato qui in Italia perché era invitato ad una manifestazione. Ci siamo visti, parlati, abbracciati. Però non è facile mantenere i rapporti: sono a tredici ore di volo dall’Argentina e, dopo tanti anni, si fa un po’ fatica a mantenere saldi i legami.
Come fu vincere i Mondiali?
Ho sempre pensato che, trascorsi un po’ di anni dalla vittoria, sarei stato capace di trovare le parole giuste per descrivere cosa si prova ad alzare quella Coppa: ma mi sbagliavo. Posso solo dire che è stato bello vincere, si prova una felicità ubriacante, ti senti pieno e appagato.
Negli ottavi di finale, Argentina-Uruguay, il tuo gol fu decisivo.
Sono cose che ti porti dietro per tutta la vita: come un tatuaggio impresso sulla pelle. Non potrò mai dimenticare gli sguardi, i volti, i gesti. E qualcosa di italiano c’era anche in quella finale: l’arbitro Agnolin.
Guardando all’oggi, e al tuo curriculum, si capisce che il tuo futuro sarà in panchina.
In effetti è così: ho allenato formazioni dilettantistiche qui nel Salento, ma ho anche girato il mondo per allenare: sono stato in Africa, a guidare la nazionale dell’Uganda, così come sono stato in Albania, alla Dinamo Tirana.
Hai anche diretto la Nazionale italiana di Beach Soccer.
E mi sono anche divertito molto.