Perché l’Arizona ci riguarda

La nuova legge sull'immigrazione dell'Arizona rischia di re-introdurre la pratica del "racial profiling"

La settimana scorsa lo stato dell’Arizona si è dotato di una nuova legge sull’immigrazione dalla severità senza precedenti negli Stati Uniti d’America.

Negli Stati Uniti i reati connessi all’immigrazione clandestina sono considerati reati federali, e sono quindi fuori dalla competenza diretta dei singoli stati: prima dell’approvazione della legge la polizia locale poteva verificare la regolarità della situazione di un cittadino solo se questo era sospettato di aver commesso un altro reato. La nuova legge prevede che la polizia locale abbia il diritto di fermare chiunque sia “ragionevolmente sospettato” di essere un immigrato clandestino e arrestarlo qualora fosse sprovvisto di un valido documento d’identità. I critici della legge – tantissimi: alcuni già impegnati in rumorosi boicottaggi, altri insospettabili come Shakira, Karl RoveJeb Bush – sostengono che il primo effetto della legge sarà riportare in auge il cosiddetto “racial profiling“: il ritenere qualcuno sospettato di un reato – e quindi fermarlo, interrogarlo, perquisirlo – solo ed esclusivamente sulla base del colore della sua pelle. Sono già allo studio alcuni emendamenti, ma difficilmente modificheranno l’impianto generale della legge.

Perché l’Arizona ci riguarda? Perché la sua nuova legge ha aperto un vasto dibattito negli Stati Uniti sull’immigrazione, e oggi Foreign Policy vi contribuisce raccontando che si può fare molto di peggio dell’Arizona, elencando le peggiori leggi sull’immigrazione del mondo. Inutile dire che la legislazione italiana – col reato di immigrazione clandestina punito con multe e detenzione, i meccanismi istituiti dalla legge Bossi-Fini – fa sì che il nostro sia il primo caso a essere citato e descritto, per arrivare a una conclusione esaustiva e lapidaria.

Dire che questa legislazione durissima non è servita a placare le crescenti tensioni relative all’immigrazione è dire poco.

Per quanto si tratti di una magra consolazione, e sperando che a nessuno venga in mente di prendere esempio, Foreign Policy descrive anche leggi peggiori della nostra. In Svizzera presto i cittadini saranno chiamati a esprimersi in un referendum sull’immigrazione: dovessero vincere i sì, il governo avrebbe il potere di deportare i detenuti extracomunitari verso il loro paese d’origine, magari anche consegnandoli alle rispettive famiglie (immaginate cosa questo potrebbe significare per le donne arabe, giusto per fare un esempio). In Australia la legge prevede la detenzione immediata per chiunque non possieda un visto, e negli scorsi anni ci sono andati di mezzo oltre duemila bambini, rifugiati dal Medioriente. La legge giapponese prevede un incentivo economico a lasciare il paese, se hai origini latinoamericane, ma con un dettaglio: se accetti e vai via, non potrai mai più fare ritorno in Giappone. Il gradino più alto – più basso, anzi – di questa classifica tocca agli Emirati Arabi e a Dubai: un inferno descritto magistralmente un anno fa da questa inchiesta dell’Independent.

Nonostante la massiccia presenza di immigrati giunti negli ultimi dieci anni, il governo non ha ancora riformato le sue legislazioni draconiane sull’immigrazione e il lavoro. Una delle misura più severe è il divieto per i cittadini stranieri di costituirsi in una qualsiasi forma di associazione o sindacato. Il risultato? Le condizioni di vita sono aspre e oppressive, si lavora ottanta ore la settimana e a salari infinitesimali. Gli immigrati vivono in piccole case pre-fabbricate, dodici uomini per stanza: sono costretti a lavarsi con acqua di colore marrone e cucinare a due passi da bagni in condizioni pietose.

Aggiornamento. Un editoriale sul New York Times torna sulla vicenda della legge dell’Arizona e chiama in causa direttamente il presidente Obama, chiedendogli di prendere immediatamente dei provvedimenti concreti per invalidare la legislazione.

L’obiettivo degli Stati Uniti è ancora accogliere e integrare i nuovi arrivati? L’Arizona ha dato la sua risposta. È tempo che Obama ne dia un’altra.

(foto: Carlo Traina)