I cori razzisti non sono una questione di «pochi imbecilli»

Ero allo stadio il 26 dicembre, Inter-Napoli, quando ci furono gli ululati razzisti nei confronti di Kalidou Koulibaly, giocatore del Napoli. Iniziarono in curva Nord ma si allargarono presto a molta parte dello stadio, ai cosiddetti tifosi “normali”. A fare quei versi erano tanti, migliaia. A un certo punto, un tizio seduto vicino a me tentò di convincere uno di quelli che facevano gli ululati spiegandogli che così non si sarebbe ottenuto altro che la squalifica del campo. Questo si girò e candidamente rispose: «Ma vi sembra possibile che ancora nel 2018 si squalifichi un campo per cori razzisti»? E continuò a ululare. Aveva completamente invertito la logica: per lui non era assurdo che ci fossero i cori razzisti ma che qualcuno ancora si arrabbiasse, si indignasse per quei cori. Che addirittura qualcuno pensasse a sanzioni. Insomma, era il suo ragionamento, non siamo più come ai vecchi tempi quando il razzismo era una cosa brutta e disdicevole. Adesso è cosa da tutti.

Nelle scorse domeniche è successo a Verona, poi a Parma dove veniva ospitata l’Atalanta il cui stadio è ancora in parte in ristrutturazione. I cori partono dal tifo organizzato e poi si espandono. Non c’è nulla di più irritante che sentire poi i commentatori delle trasmissioni sportive parlare dei soliti “200 imbecilli che rovinano il calcio”. Ma quali 200 imbecilli?

Con questo non sto dicendo che tutti quelli che ululano a Koulibaly o a Dalbert, il giocatore della Fiorentina insultato e offeso a Parma, siano tutti razzisti. C’è senz’altro uno stupido effetto di trascinamento. Bisogna però smetterla con la retorica dei “200 imbecilli” o con l’altra stucchevole e autoassolutoria affermazione: “L’Italia non è un paese razzista”. Magari fosse così. In Italia ci sono i razzisti come ci sono in altri paesi, né più né meno. E continuare a nascondersi dietro il paravento degli “Italiani brava gente” non porterà da nessuna parte.

In Inghilterra, che fino a un paio di decenni fa aveva negli stadi problemi forse più pesanti dei nostri, succede che se qualcuno si permette di insultare per questioni di etnia un giocatore viene accompagnato fuori e in quello stadio non rimette più piede per tutta la vita. Certo, sarebbe difficile pensare di adottare lo stesso sistema in Italia dove le persone da accompagnare fuori sarebbero qualche migliaio. Però ciò che è accaduto in Inghilterra è che le società calcistiche, pressate pesantemente dalle decisioni della politica, hanno iniziato a essere inflessibili con i propri tifosi. Leggete invece il comunicato dell’Hellas Verona dopo che al termine di Verona-Milan era stato sottolineato come ci fossero stati ignobili cori razzisti contro un giocatore del Milan, Franck Kessie: “I buu a Kessie? Forse qualcuno è rimasto frastornato dai decibel del tifo gialloblù. Non scadiamo in luoghi comuni ed etichette ormai scucite. Rispetto per Verona e per i veronesi”. In pratica: i versi ai giocatori di colore sono solo tifo, smettetela con sta menata del razzismo.

Dopo Cagliari-Inter Romelu Lukaku, giocatore nerazzurro, si è detto schifato per i cori razzisti contro di lui lanciati dai tifosi cagliaritani. In maniera surreale la curva Nord dell’Inter gli ha risposto con un comunicato: Non cadere nella trappola, quello è tifo, non è razzismo. Il comunicato si concludeva con l’immancabile frase: “L’Italia non è un Paese razzista come sono invece i Paesi del Nord Europa”. Tutto secondo logica ultras. Fa impressione però che la società Inter non abbia risposto in nessun modo a questo comunicato.

L’ultima domenica di campionato, quando l’arbitro ha fermato Atalanta-Fiorentina e fatto comunicare dagli speaker che la partita sarebbe stata interrotta se gli ululati razzisti si fossero ripetuti, da tutto lo stadio si è levata una selva impressionante di fischi. Nessuno prima aveva protestato o fischiato contro i cori razzisti.

Stefano Nazzi

Stefano Nazzi fa il giornalista.