Cuperlo contro Golia

Il messaggio col quale entreranno nelle primarie lo sintetizza Andrea Orlando, ministro dell’ambiente ed ex giovane turco ormai cresciuto: «Saremo Davide contro Golia». Il tipico underdog, lo sfavorito che può sorprendere battendosi a mani nude contro lo strapotere di una macchina da guerra elettorale.
Solo che le parti nel melodramma del congresso Pd sono uscite da una sceneggiatura impazzita. Per cui la parte di Davide tocca a un dirigente giovanile ma ormai stagionato, nato e cresciuto nel cuore del Partito decenni prima che si chiamasse democratico. E il Golia è invece il giovane vero, «il bambino che mangia i comunisti» nella famosa definizione di Paolo Gentiloni, oggi beneficiato da ogni endorsement interno ed esterno e dai favori di qualsiasi sondaggio scientifico o empirico.

Gianni Cuperlo non si fa troppe illusioni sull’esito del confronto con Matteo Renzi, però per due mesi vuole dare tutto. Pensa che il proprio risultato alle primarie sia decisivo per misurare la qualità del Pd che verrà. E quando alla Festa di Genova viene il suo turno, mentre al Porto Antico si raccontano ancora le leggende sulla mitica serata di Renzi, con la gente affacciata fin dai parapetti della strada sovrastante, è soddisfatto dell’accoglienza dei quattro-cinquecento venuti ad ascoltarlo.
Certo, sono un decimo di quelli di Renzi. Sono perfino meno, e meno eccitati, di quelli che appena un’ora prima si sono scaldati per le requisitorie di Nichi Vendola. In un certo senso però ha ragione il volontario della Festa che osserva la limitata ma convinta standing ovation finale per Cuperlo: «Questi almeno sanno bene per che cosa applaudono». Vale a dire: il consenso per l’ex ragazzo della Fgci è più ridotto ma anche più ponderato, più consapevole, più ragionato, del resto si palesa dopo un’ora abbondante di dettagliata e vasta disamina cuperliana della crisi italiana nella crisi globale nel contesto storico, seguita dal pubblico in partecipe silenzio, con appena cinque minuti conclusivi di autentico comizio da candidato.
Insomma, basterebbe questa foto per capire che non potrete immaginare due politici più diversi di Cuperlo e Renzi. Se non vi basta, seguite il primo nel rituale giro per le cucine della Festa: niente codazzo, né fotografi né telecamere, saluti cordiali ed educati, nessuna traccia dell’emozione che precede e accompagna in ogni luogo gli spostamenti del sindaco di Firenze.

Eppure i due estremi si toccano – già s’è visto nella polemica su tempi e regole del congresso – e anche nell’eventualità di un risultato squilibrato potrebbero tornare utili uno all’altro. A condizione che nessuno dei due si faccia appesantire dal sostegno di questo o quello fra i membri del patto di sindacato che ha retto il Pd fin qui.
A chi osserva che in queste prime battute sembrano fare campagna più contro Franceschini che contro Renzi, Cuperlo e i suoi rispondono ridendo. Perché è evidente che è così. Quando Sergio Cofferati, spalla del candidato nel dibattito genovese, picchia duro su chi «compie capriole immotivate e cambia casacca senza il minimo di autocritica», la platea si entusiasma. Hanno individuato un possibile lato debole del fronte renziano (neorenziano) e non lo molleranno, contando anche sull’indicibile retropensiero della fedele platea: che a fare queste cose alla fine siano soprattutto ex dc.
Siamo però alla propaganda: nessuno si illude che Renzi faccia l’errore di costituire un proprio patto di sindacato con pezzi di quello precedente. E poi Davide-Cuperlo sa che un problema col passato ce l’ha anche e soprattutto lui. Perché lo starter della sua corsa è stato D’Alema. E perché da quelle parti c’è un problema che si chiama Bersani e che nessuno sa come trattare.

L’ex segretario non voleva Cuperlo, non rivolge la parola a D’Alema e non s’è ancora rassegnato a come stanno andando le cose, ma non è qui il dramma perché comunque i bersaniani sopravvissuti stanno confluendo, con maggiore o minore convinzione. Il cruccio inconfessabile (diciamo) di Cuperlo, è che Bersani non molla la ribalta: non fa autocritica, ogni giorno cerca e trova lo scambio acido con Renzi, induce i fedelissimi ad anacronistiche dichiarazioni sulla necessità di riequilibrare ex Ds ed ex Margherita, e davvero sembra impegnato in un assurdo e perdente secondo tempo delle primarie del 2012. L’opposto di quello che Cuperlo deve e vuole fare.
Qui sta la debolezza del fronte che una volta poteva dirsi padrone del partito. La botta di febbraio non è stata assorbita né razionalizzata. Tutto quanto è accaduto allora e dopo viene ancora vissuto come un’offesa e un’ingiustizia. Non è stata costruita alcuna ipotesi di reazione, se non l’ostruzionismo anti-primarie. E quando D’Alema s’è stufato di aspettare e ha messo in pista la propria opzione, l’offesa invece di attenuarsi s’è moltiplicata.

Si dirà, ritualmente: non può essere solo una questione di nomi per la leadership.
Giusto. Ma provateci voi, adesso, a incastrare Matteo Renzi sulla discriminante destra-sinistra. La lettura sociale che Cuperlo e Cofferati – per citare i due dell’altra sera – propongono della crisi e del ruolo del Pd nel contesto delle sinistre europee è in continuità con la linea bersaniana, può essere condivisibile e, se questo fosse davvero il tema del congresso, troverebbe nel Pd lo stesso consenso maggioritario che ebbe un anno fa.
Se non andrà così, un po’ sarà perché Renzi senza difficoltà ha infarcito i propri interventi di contenuti di sinistra (contro i poteri forti, per esempio) e non si farà più beccare a lodare Marchionne o a usare le tesi di Ichino. Soprattutto però, inevitabilmente, la conta che si annuncia sarà sulla forza della leadership. E qualsiasi bersaniano interroghiate su come sia possibile che l’orgoglio di partito del popolo democratico si rivolga ora all’ex marziano di Firenze, lui per primo risponderà lapidario come il presidente dei senatori Luigi Zanda l’altra sera: «Perché vogliono vincere contro Berlusconi».
A quanto pare, per vincere oggi bisogna passare col tritasassi sul Pd di ieri.
Nichi Vendola va a Genova e scatena la platea fin dalla prima battuta: «Sono il più leale e il più incazzato con il Pd». Facciamo finta di non conoscere quanta parte della sconfitta sia anche responsabilità di Vendola: la sua suona come la frase perfetta. La frase che potrebbe pronunciare qualsiasi militante democratico in ogni angolo d’Italia. La frase che Renzi non avrebbe problemi a fare sua, anzi ha cominciato a dirla ben prima di Vendola. Proprio la frase che invece – qui sta un altro dei suoi problemi – Cuperlo non pronuncerebbe mai, per educazione e perché la parte dell’incazzato col partito non gli si addice. Il che lo taglia fuori dal mood prevalente dentro e intorno al Pd.

Chiudiamo la carrellata delle questioni che l’ex ragazzo della Fgci deve risolvere in fretta con una annotazione curiosa per un dirigente che s’è sempre occupato con competenza di comunicazione: Cuperlo non ha ancora uno staff, fa tutto da solo, aiutato dai primi compagni che si sono fatti avanti ma con uno svantaggio irrecuperabile rispetto alla macchina renziana. E non vuole stravolgere se stesso trasformando i propri ragionamenti negli eventi pubblici in show a effetto. Insomma, davvero è Davide contro Golia, anche su questo piano.
Tutto chiuso, allora?
Dipendesse dai numeri e dai rapporti di forza, sì. Cofferati sorride quando gli si chiede del possibile appoggio della Cgil: solo i giornalisti possono ancora pensare che nel 2013 gli iscritti alla Cgil si spostino in massa su qualche candidato, e non siano essi stessi attraversati dai dubbi e dalle pulsioni di tutti gli altri.
Inoltre Cuperlo dovrà fare i conti anche con Pippo Civati, un altro a cui viene bene di fare l’incazzato col partito, con qualche scrupolo in meno sul lato della lealtà: nella campagna congressuale possiamo aspettarci scintille su questo fronte, perché la totale libertà d’azione che Civati s’è preso fuori da ogni spirito di gruppo innervosisce uno come Cuperlo come Renzi non potrebbe mai fare.

La politica però è anche altro. E dalla circostanza che Renzi sia un candidato segretario del tutto improvvisato non si sfugge. Ora il sindaco ha capito che, per motivi contingenti e storici, non si può pensare di cambiare l’Italia senza passare dalla conquista del Pd, ma è evidente che ha idee approssimative su che cosa fare del partito, come guidarlo, come dargli un gruppo dirigente degno di questo nome. Fra i suoi tanti sostenitori, i meno avventurosi cominciano a guardare oltre il vento del successo, oltre la conquista di tutti gli obiettivi, perfino al di là di palazzo Chigi: con la velocità della politica contemporanea, senza un partito che ti sostenga convinto fai presto a essere il Grande Vincitore nella primavera del 2014, e il Grande Fallimento nella primavera del 2015.
Implicita o esplicita, l’offerta di sostegno venuta da Dario Franceschini oltre al cruciale “via libera” indiretto di Enrico Letta include un’opzione su questo terreno. Diciamo un know-how messo a disposizione di Renzi.
Qui il gruppo Cuperlo (depurato dei suoi anziani più logorati) e il gruppo Renzi (se volesse accettare dai Franceschini e dai Fioroni solo un appoggio disinteressato) potrebbero finire per darsi una mano. Gli aspiranti pontieri ci sono già.

Renzi non spartirebbe una vittoria, non è il suo stile, e nessuno gli chiederebbe di farlo. Ma dall’interno della sua ristrettissima cerchia di amici (perfino in via di ulteriore restringimento, a quanto pare), il sindaco non può non constatare la fragilità del suo stesso manipolo di parlamentari. E quindi fare una riflessione sull’urgenza di dotare finalmente il Pd di un gruppo dirigente giovane ma solido d’impianto, leale al segretario ma dotato di autonomia di pensiero, post-ideologico ma non ballerino, selezionato non sulla base delle logiche tribali degli ultimi anni bensì sul giusto mix fra legittima ambizione personale e condivisione di un progetto collettivo di discontinuità e di drastico cambiamento del paese: tutti requisiti per i quali i renziani doc, come è evidente, non bastano.

Il Pd di domani avrà una maggioranza e una minoranza: i tempi delle ammucchiate dietro Veltroni non torneranno. Ne avremo prova da subito nel congresso, se a ogni candidato corrisponderà (come si spera) una sola lista per l’assemblea nazionale invece delle filiere dietro ai capicorrente. Il che vuol dire che, se per conoscere il vincitore della contesa dovremo aspettare dicembre, per valutare la qualità politica di maggioranze e minoranze basterà molto meno, basteranno poche settimane.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.