Togliamo l’assedio al Palazzo, apriamoci al dissenso

Tanto abbiano detto, scritto e fatto, che alla fine davvero i palazzi della politica si trovano a dover assumere decisioni cruciali sotto l’assedio e il condizionamento dell’emergenza.
Già l’elezione del capo dello stato s’era svolta in questo clima affannato, concitato, nella confusione dei comportamenti dei grandi elettori e sotto l’attacco di una indistinta “opinione pubblica” di cui era impossibile valutare volontà e dimensioni. E in quei giorni, a cavallo delle votazioni su Marini, Prodi, Napolitano, tanti commentatori avevano rievocato l’elezione di Scalfaro, spinta dalle bombe del terrorismo mafioso del ’92.

Oggi, senza minimamente voler proporre confronti oltraggiosi, il voto di fiducia sul governo Letta si consuma dopo che davvero qualche fuoco è stato esploso. E nel riproporsi di polemiche antiche e pericolose su chi abbia indirettamente armato la mano che ha sparato: è stata la crisi che produce disperazione e rabbia verso il potere? O è stato chi ha additato «i politici» come responsabili di una situazione che ha in realtà tante cause e molti colpevoli (che non vuol dire «nessun colpevole»), come dimostra del resto la sua dimensione globale?

La cosa migliore da fare, mettendo contemporaneamente argine all’una e all’altra delle batterie di accuse reciproche, sarebbe semplicemente raffreddare la tensione emotiva che circonda ogni atto e ogni passaggio della nostra vita pubblica, da tanto tempo.
Non c’è né da neutralizzare le differenze e i dissensi, né da mettere il silenziatore alle discussioni e alle polemiche. Puntualmente, chi in una situazione d’emergenza si sente minacciato da sentori di censura (magari anche perché ha un vago senso di colpa per le parole eccessive sparse nel vento) si riposiziona su una nuova barricata, quella della vittima della riduzione degli spazi di democrazia, e da lì ripartono nuove ondate di polemiche che si autoalimentano.
Tutto ciò è insensato, e già dire che non porta da nessuna parte mi pare ottimista perché invece può portare a estendere i fuochi invece di spegnerli.

Il governo che ieri pomeriggio ha ricevuto la fiducia alla camera non deve essere vissuto come una provocazione da chi ne è rimasto fuori o da chi ne è rimasto deluso. Perché non lo è, non vuole esserlo, e soprattutto perché le persone che lo guidano e che ne fanno parte non sono le stesse che a vario titolo e da varie sponde hanno causato risse negli ultimi vent’anni.
Questo è forse il pregio migliore del governo Letta.

Il governo contiene delle ottime competenze, rassicuranti soprattutto sul fronte della rinegoziazione europea (Saccomanni, Moavero) e della crisi occupazionale (Giovannini). Presenta delle novità assolute che significano la negazione del politicismo (Idem, Kyenge, Bray, Carrozza). Ha dato spazio a importantissime scelte di discontinuità rispetto al ceto politico passato (in particolare nella delegazione del Pdl). E infine si fa forte del piccolo grande capolavoro di Emma Bonino ministro degli esteri: segnale forte verso l’esterno, visto che si offre al mondo il volto di una donna capace, conosciuta, credibile e carismatica; e segnale forte all’interno, visto che finalmente si dà soddisfazione al grande favore di cui Bonino gode a livello popolare.

Eppure, più decisiva di ognuna di queste caratteristiche, è importante che tutti i ministri siano in qualche modo simili a colui che li ha scelti: come Enrico Letta, sono persone che nei propri settori e nei propri partiti hanno sempre preferito e praticato il dialogo. Francamente, con tutto quello che se ne può dire, anche Angelino Alfano è un berlusconiano di questa razza: fedele al capo perinde ac cadaver e con imbarazzanti capitoli nel curriculum, ma certo non un falco.

Ecco perché con questo governo, e intorno a esso, condividendo il sollievo di Napolitano, si può sperare che la dinamica politica se non altro torni fisiologica, perda di concitazione. Ci sono provvedimenti da prendere probabilmente molto duri, c’è una condizione del paese sulla quale è inutile sprecare altre parole: sarà giusto dare battaglia intorno a questi temi, ma almeno si potrà evitare lo strillo, l’invettiva, la scomunica. Fosse almeno servito a questo, il sacrificio assurdo del brigadiere Giuseppe Giangrande.

E ce ne sarà tanto più bisogno perché dalla piazza verranno altre urla di dolore, ben fondate e argomentate. Come ricordava Letta durante il famoso incontro in streaming con i Cinquestelle: ogni ministro si troverà da domani delegazioni di italiani, lavoratori e non, a premere davanti al portone per ricevere giustizia, speranza, sollievo.
La prudenza in considerazione di questa situazione è l’atteggiamento che sta evidentemente prevalendo nel Partito democratico. Dopo i momenti della follia collettiva, torna un po’ di saggezza, che s’era vista in realtà affiorare già prima della sparatoria di piazza Colonna.

Il dissenso verso la formula politica della coalizione di maggioranza non rientra, ed è bene che non rientri perché dà voce a un’insoddisfazione diffusa alla base del partito con la quale occorre fare i conti. Il dissenso però non si avvita in ulteriori traumi, spaccature addirittura scissioni che oggi appaiono finalmente fantasiose. Va detto: il merito maggiore anche in questo caso è di Letta e delle sue scelte spiazzanti sui nomi.

Ci sarà da organizzare un lavoro parlamentare complicato, qualcuno però dovrà farsi carico di ricostruire un minimo di rapporto di fiducia nel Pd, all’interno di ciò che resta dal suo gruppo dirigente e fra quest’ultimo e la base di militanti e simpatizzanti.
Per riconquistare solidarietà e fiducia è necessario tornare a dire la verità sugli eventi politici degli ultimi mesi, a cominciare dal risultato elettorale.
Quasi tutto ciò che è accaduto al Pd e nel Pd tra marzo e aprile è figlio del rifiuto, psicologico prima ancora che politico, di accettare la sconfitta del 24 febbraio, di capirne le ragioni e di fare i conti con le sue conseguenze.

Infierire su Bersani non è giusto perché ormai lui la responsabilità di questo gigantesco equivoco se l’è assunta e l’ha pagata. Il segretario ha pensato sinceramente di fare da scudo umano rispetto a una verità amara e inaspettata: dietro di lui però tanti, quasi tutti (compreso, per onestà, Enrico Letta) hanno accettato una versione insincera e irrealistica dei fatti. Ora solidarietà e fiducia si ricostruiscono se il corpo collettivo del gruppo dirigente non si autoassolve, magari scaricando ogni onta e ogni colpa sui 101 della votazione su Prodi: di costoro abbiamo scritto in quella famosa sera che si erano «sconciati». È vero, come è forte il fastidio per il fatto che rimangano tutti comodi e acquattati nel grande corpaccione dei gruppi parlamentari democratici. Ma quel voto franco è stato solo l’anello più imbarazzante di una catena di errori.

Appare allora inevitabile che la nuova gestione del Pd abbia caratteri di collegialità, per gestire la transizione verso l’unica leadership che a questo punto pare credibile (anche perché si tratta di uno dei pochi che non volle accettare l’interpretazione ingannevole a auto-ingannevole del risultato elettorale). Per ora il ruolo nazionale di Matteo Renzi si avvia a essere quello di presidente dei sindaci italiani: una postazione cruciale, che lo porterà continuamente a Roma.
Le aspettative di chi l’avrebbe voluto subito incoronato saranno forse deluse. Invece magari anche questa scelta può contribuire a rilassare tempi e atteggiamenti, lasciando a Enrico Letta e ai suoi ministri l’aria necessaria ad alimentare le prima scelte di governo.

In parlamento deve partire subito la macchina delle riforme istituzionali e anche costituzionali: se in particolare quest’ultime risultassero seriamente avviate, i tempi della legislatura si allungherebbero oltre la prima scadenza delle elezioni europee del 2014. E sarà importantissimo che Cinquestelle, Sel e Lega stiano a pieno titolo all’interno di questa discussione e questo percorso, con ruoli riconosciuti (le presidenze delle commissioni di garanzia e controllo) e con piena e sincera apertura ai loro obiettivi di riforma.

Non solo il palazzo della politica deve smettere di essere e di sentirsi assediato. Anche questa nuova difficile maggioranza, e questo nuovo difficile interessante governo, devono sfuggire al rischio di presentarsi e di muoversi come l’alleanza degli sconfitti che si arrocca davanti al paese e agli oppositori.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.