La guerra da vincere

Da che era impossibile, anzi impensabile, non è certo diventato facilissimo in due giorni. Però pare che un governo sostenuto da Pd, Pdl e centristi stia per nascere. Con una Lega che rimane fuori per finta. Con Vendola che si impegna per una «opposizione responsabile» e appoggio su singoli punti. E con un M5S che in poche ore passa dalla rivolta di piazza al promettere che «su alcune cose il nostro voto ci sarà» (almeno dalla voce di Crimi e Lombardi, poi è arrivata la stroncatura del loro capo).

Se le cose andassero così, si tratterebbe di un miracolo politico targato innanzi tutto Giorgio Napolitano e reso possibile dalla duttilità e dalla credibilità trasversale di Enrico Letta. Il quale sa però che il successo autentico non risiederebbe tanto nello smussare gli angoli delle proposte del Pdl e nel renderle compatibili con quelle del Pd, bensì nel presentare agli italiani un governo e un quadro parlamentare finalmente innovativi, con nomi estranei ai fallimenti del passato recente e meno recente, capaci di incidere su quelle sei-sette questioni che tutti conoscono e che sono sempre rimaste insolute per colpa dei veti incrociati.

A maggior ragione dopo l’incontro di Letta con la delegazione di M5S, c’è da dire che il problema più grosso il presidente incaricato (e Matteo Renzi, e ciò che rimane del gruppo dirigente Pd) se lo trovano in casa.
I circoli occupati, la diffidenza verso Berlusconi, il dissenso di dirigenti come Civati, Puppato, Emiliano, Orfini: tutto questo ci sta, non è solo legittimo ma perfettamente comprensibile. Sono dubbi e resistenze che attraversano in realtà chiunque, e che in condizioni normali un partito riuscirebbe ad assorbire, a sintetizzare in una linea magari non unanime ma accettata, oppure per decidere – possibilissimo – che hanno ragione loro, e che questo accordo non si può fare.

In questi giorni invece si sconta l’antica cessione di autonomia in favore di un ceto intellettuale che del radicalismo tendente al giustizialismo fa la propria ragion d’essere. I Travaglio, i Padellaro, i Flores che danno del cadavere putrescente a Napolitano, intimano al Pd di non celebrare il 25 aprile e annullano la persona di Enrico Letta perché “nipote” sono personaggi che fanno orrore. Il loro linguaggio suscita repulsione. Il loro livore di sconfitti mette i brividi.
Ma in condizioni normali il loro posto dovrebbe essere ai margini, in quell’angolo della società e del dibattito pubblico dove sempre si collocano gli odiatori di professione.

Solo qui capita che da quell’angolo si riesca a condizionare gli umori di un corpo collettivo – la sinistra italiana – che senza esser mai stata quieta ha tuttavia sempre cercato di parlare e di ragionare di politica, lasciando ai neofascisti la necrofilia e l’intimidazione, ai clericali la scomunica.
Certo ha problemi grossi da risolvere, Enrico Letta. Ma sembrano inezie se paragonati alla guerra contro i battaglioni della morte che dobbiamo vincere noi.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.