Il paradosso del segretario

Bersani è il leader di una coalizione obbligata ad assumere l’iniziativa per il nuovo governo, ma è anche il segretario di un partito duramente colpito, ai suoi minimi storici.

Ieri nell’Acquario romano Pier Luigi Bersani non era solo l’impersonificazione della stanchezza e della delusione di una gran brava persona consapevole di aver mancato un obiettivo importante. Era anche l’incarnazione di un paradosso forse unico nella storia politica del paese.
Nello stesso tempo, infatti, Bersani è il leader di una coalizione obbligata dai risultati elettorali ad assumere l’iniziativa per dare corpo a una maggioranza (come di solito capita ai vincitori delle elezioni). È anche però il segretario di un partito duramente colpito: tre milioni e mezzo di voti persi in cinque anni, il minimo storico dei consensi per il centrosinistra in termini assoluti e percentuali, sconfitte locali inattese e amarissime.

Le due identità di Bersani si condizionano a vicenda. La proposta che porterà al Quirinale per la formazione del nuovo governo, esplicitamente aperta all’adesione di qualsiasi altro partito (e segnatamente del M5S), vuole essere forte e innovativa nei contenuti ma sarà fatalmente debole politicamente.
D’altra parte, l’emergenza di dare un governo al paese (non ci si è neanche resi conto emergenza fino a che punto: basta verificare le scadenze internazionali di bilancio che l’Italia dovrà rispettare) funziona da blocco per una discussione interna che senza questo vincolo sarebbe già iniziata, con l’apertura della crisi del gruppo dirigente del partito.
È una posizione scomodissima per Bersani, la peggiore immaginabile. Eppure nessuno Pdl a parte dovrebbe aver interesse a tifare per un suo fallimento.

In molte parti del Pd (e fra i simpatizzanti, come ha dimostrato anche il mini-sondaggio lanciato sul sito di Europa, il giornale che dirigo) si coltiva la speranza non tanto segreta che il primo a non avere tanta convenienza in un fallimento del tentativo Bersani si chiami Beppe Grillo.
Il ragionamento scivola facilmente in wishful thinking, comunque qualche base razionale ce l’ha. Perché se anche Grillo punta alla sconfitta totale del sistema dei partiti e quindi anche del Pd, è improbabile che speri di arrivarci in un turno elettorale sincopato, ravvicinatissimo, magari addirittura prima dell’estate. Per far crescere la sua opposizione al modo (secondo lui) vecchio di governare, ha comunque pur sempre bisogno che un governo ci sia. Questo ammesso e non concesso – e, a costo di sembrare naif, io non vorrei concederlo in automatico – che Grillo non coltivi dentro di sé anche il senso della responsabilità per la situazione nella quale si trova l’Italia, e non valuti l’opportunità di mettere da subito l’esercito dei suoi parlamentari al lavoro dentro una legislatura sicuramente breve, ma sperabilmente utile.

Per questo motivo Bersani (che ne ha parlato col capo dello stato, senza riceverne esplicito incoraggiamento ma certo senza esserne scoraggiato) lancia un appello ai cittadini-eletti di M5S: «Questo paese è anche il vostro, e dei vostri figli». Un appello condito di contenuti programmatici sulla riforma della politica e delle istituzioni che dovrebbero suonare famigliari ai grillini. E rafforzato da una mossa che non nasce dalla furbizia bensì dal rispetto dell’esito del voto: l’intenzione di Bersani di proporre un grillino per la presidenza della camera dei deputati è un po’ l’atto inaugurale della Terza repubblica.

Naturalmente, si diceva, l’iniziativa sulla formazione del governo ha i suoi lati deboli.
Il rischio grave per il Pd è che Grillo si comporti come si comporterà il Pdl: consentirà a Bersani di esporsi per poi farlo fallire, retrocedendolo a un ruolo gregario e sostanzialmente annullando l’effetto del suo primato elettorale.

Anche per questo motivo quando Bersani afferma con un ritorno d’orgoglio l’intenzione di «tenere la barra in mano», in realtà dice solo una mezza verità. La barra in mano, una volta di più, toccherà di tenerla al presidente della repubblica, il quale non consentirà sicuramente a Bersani di proseguire nel tentativo se non si dovessero creare chiaramente e in anticipo le condizioni per la nascita di una maggioranza.

Oltre tutto, se si considera ravvicinato l’orizzonte di nuove prove elettorali (quella europea è nella primavera 2014), si può star certi che il Pd non abbia intenzione di farsi rosolare guidando o anche solo partecipando a un’avventura di governo fragile e perennemente sotto ricatto. Ieri mattina è stato significativo l’intervento di Berlusconi, a stoppare le tentazioni del Pdl per un riconteggio dei voti per la camera. A Berlusconi sta benissimo di non dover esser lui ad assumere l’iniziativa che invece tocca a Bersani. Possiamo star certi che, appena la patata dovesse rivelarsi troppo bollente, anche il Pd la lascerà cadere: va bene il senso di responsabilità, ma di spirito di sacrificio se n’è dimostrato abbastanza durante l’anno passato. A quel punto toccherà a un simil-Monti (un suo attuale ministro?), per un lavoro di durata più breve di quello del professore.

Quel che rimane, e che riguarda l’altra identità di Bersani – il segretario di un partito sconfitto – è una questione enorme che (forse) si mette tra parentesi solo perché le urgenze nazionali vengono prima di quelle di partito.
Nel discorso di ieri l’analisi del risultato (che non era ancora stata svolta insieme all’intero gruppo dirigente) è apparsa insufficiente. Tre milioni e mezzo di voti in meno non si spiegano solo col disorientamento degli elettori davanti a «messaggi semplificatori» provenienti da Berlusconi e Grillo. Questo suona identico a tante altre letture del passato, quando negli ultimi mesi s’è raccontata invece la storia di un paese diventato ormai avvertito e maturo.

Bersani ha riconosciuto l’inadeguatezza della proposta elettorale ma qui, temiamo, c’è qualcosa di più, e di più profondo. Sintetizziamo ora un discorso complesso che andrà sviluppato: se si punta tutto sulla ricostituzione di un partito di massa radicato nel territorio, e poi per colpa di sondaggi gravamente sbagliati non ci si accorge di interi pezzi di elettorato che non solo non arrivano (mentre milioni di elettori ex berlusconiani smobilitano!) ma se ne vanno, vuol dire che era illusoria l’impostazione di base.
Ora probabilmente sarà messo in discussione il gruppo dirigente. Purtroppo però, una volta di più, si riaprirà l’eterno dossier dell’identità e della natura del Partito democratico.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.