Che senso avrebbe Monti contro il Pd?

Mario Monti ieri da Oslo invitava gli italiani a respingere «mistificazioni e promesse irrealizzabili». La sera della vittoria nelle primarie Pier Luigi Bersani lanciava la lunga rincorsa elettorale del centrosinistra impegnandosi a vincere «senza raccontare favole, perché poi non si governa».
Se è facile cogliere l’analogia, è perché lo strappo di Berlusconi semplifica lo schema dell’imminente campagna elettorale, con beneficio per chi dovrà scegliere.

Da una parte ci saranno quelli della ricostruzione, dell’Italia a testa alta riconosciuta in Europa, della credibilità, della serietà, del lavoro paziente per riportare in Italia gli investimenti e per mettersi in condizione di spendere ciò che l’Europa ci trasferisce per creare impresa e occupazione.
Dall’altra parte avremo Berlusconi e la Lega giustamente (ma non gratuitamente) ricongiunti: contro l’euro e l’Europa, promettendo l’abolizione dell’Imu e meno tasse per tutti, riscopertisi in extremis difensori delle province e ostili all’incandidabilità dei condannati. Più oltre ancora ci saranno Beppe Grillo e la sua schiera di simpatici generosi dilettanti allo sbaraglio, selezionati con cura fra i più docili e inoffensivi nel segreto del server di Casaleggio.
In questo quadro è ovvio dove si collochino Bersani e Monti, al di là delle dichiarazioni coincidenti. Sono dallo stesso lato della barricata che tocca erigere per tenere lontani i nostalgici dell’economia creativa (già, perché vuole tornare anche Tremonti…).

L’esito di questo confronto elettorale, con l’aria che tira e con un paese stremato dalla crisi e delle misure adottate per contrastarla, non è affatto scontato. È questa l’incertezza che scontiamo con i miliardi perduti ieri fra cadute di Borsa e innalzamento dello spread. Ed è tenendo conto di questa prospettiva incerta che si sta ragionando sul ruolo di Monti, su come egli voglia e possa investire politicamente la propria convinzione di dover fermare «mistificazioni e promesse impossibili» e il proprio sdegno verso il voltafaccia di Alfano. Ha senso che il cruciale apporto del Professore venga speso in contrapposizione a Bersani e al centrosinistra? Ha senso che il patrimonio di consenso e credibilità trasversale accumulato da Monti si ridimensioni in un’operazione politico-elettorale degnissima ma molto parziale?

Su Europa, il giornale che dirigo, non abbiamo mai considerato la candidatura del Pd a palazzo Chigi come un articolo di fede. La guida diretta del paese da parte di un leader democratico (e in generale di un leader di partito) non è mai stata un diritto divino, ma una possibilità da meritarsi e da conquistare dopo diversi fallimenti politici e di governo del centrosinistra, e dopo un colpo a vuoto nell’offrirsi come alternativa pronta e matura al momento della crisi di Berlusconi lo scorso anno. Negli ultimi mesi si è però finalmente compiuto il processo politico che mancava, al Pd e al leader che gli elettori hanno scelto per guidare la coalizione di centrosinistra. Una piattaforma di governo riformista s’è definita nella faticosa gestione parlamentare delle misure del governo Monti, tutte approvate dopo le necessarie modifiche. Un rapporto diretto di fiducia con l’elettorato è stato recuperato grazie al coraggio di Bersani e di Matteo Renzi nel volere a tutti i costi le primarie, anche contro le resistenze interne. Nello stesso contesto delle primarie quella piattaforma di programma (ancorché generica) è stata accettata ed è diventata punto di riferimento comune di altre forze politiche: si va componendo una coalizione che al momento è l’unica in grado di conquistare la maggioranza sia alla camera che al senato, dunque di garantire stabilità, ma che deliberatamente non vuole in ogni caso essere “autosufficiente”.

Questi adesso sono fatti, non più astratte petizioni di principio sul ripristino della «democrazia dei partiti». Sulla base di questi fatti Bersani è il candidato più forte per palazzo Chigi, progressivamente conosciuto e riconosciuto anche a livello internazionale.
È pensabile, è utile che Monti si ponga in posizione di sfida rispetto all’esito di questo faticoso e non scontato processo, peraltro più volte auspicato da lui stesso e da Napolitano?
È ovvio che Monti sarà padrone assoluto delle proprie scelte. Logica e razionalità suggeriscono però che il suo indispensabile sostegno a un’uscita politica positiva dall’attuale situazione, in continuità sostanziale col suo lavoro, non possa consistere in un’opzione di parte, carica di controindicazioni. Perché sarebbe inevitabilmente minoritaria, quindi sminuente del suo ruolo; perché aprirebbe nel centrosinistra contrasti e contraddizioni tutt’altro che proficui, con rischio di ripiegamenti rispetto alla linea riformista; e perché infine dividerebbe un campo europeista che per vincere ha bisogno di mostrarsi unito.

Si dirà che simili ragionamenti sono mossi dall’interesse partigiano di non ritrovarsi Monti come avversario. Beh, dopo averlo tanto (e a fatica) sostenuto per un anno, è anche ovvio che sia così. Diciamo allora che questo è il caso in cui a un interesse partigiano corrisponde l’interesse generale, e che anche il presidente Monti lo sta probabilmente valutando così.

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.