Facebook, noi, le colpe e le responsabilità

Qualche giorno fa, Luca Sofri ha commentato sulla questione di Facebook e dei danni che fa, criticando (anche) il mio post sulle colpe di noi utenti. I punti centrali di Sofri mi sembrano due. Primo, che dovremmo concentrarci meno su di chi è la colpa e più su chi può fare qualcosa per rimediare ai danni. Secondo, che Zuckerberg può farci qualcosa mentre noi individualmente possiamo farci niente o quasi niente, quindi se vogliamo trovare una soluzione al problema dovremmo ricordare a Zuckerberg le sue responsabilità ed esortarlo a fare qualcosa.

Mi sembrano considerazioni sensate. Zuckerberg ha senz’altro una grande responsabilità, per via del grande potere che si ritrova. Le nostre colpe e le nostre responsabilità non vanno però sottovalutate.

Innanzitutto, capire come siamo arrivati a un certo punto è spesso parte della fatica di trovare un rimedio. Per usare la metafora di Sofri: davanti a una cartaccia gettata a terra la cosa buona da fare è certamente raccoglierla; ma dobbiamo anche capire che quella cartaccia sta lì perché qualcuno ce l’ha buttata – e quando, e come, e perché – altrimenti avremo presto cartacce in ogni dove e raccoglierle sarà molto più difficile. Capire le colpe aiuta a usare meglio le nostre responsabilità.

Un altro aspetto da considerare riguarda la cultura della responsabilità individuale. Aspettare la soluzione da Zuckerberg (o dal parlamento, o dalla polizia postale, o dal Trust Project) potrebbe essere la strategia migliore. Ma molti di noi (soprattutto in Italia, mi verrebbe da dire) tendono a sovrastimare sistematicamente le volte in cui la strategia migliore è chiedere all’azienda o al governo di farci qualcosa. Dovremmo ricordare più spesso a noi stessi e agli altri che le scelte individuali possono avere effetti collettivi; che scegliere di condividere frettolosamente una notizia falsa significa non soltanto darle oggi visibilità e profitto, ma anche creare un piccolo incentivo perché ci siano più sciocchezze domani e dopodomani.

La questione più importante è proprio quella degli incentivi. Forse i grandi padroni della stampa di cinquanta o settanta anni fa avevano davvero più a cuore la qualità dell’informazione. Ma ciò accadeva in gran parte perché quelle aziende operavano all’interno di un sistema che premiava quel comportamento, per via del tipo di clienti, dei limiti tecnologici, e delle norme sociali prevalenti.

Se Zuckerberg domani trasformasse Facebook in un’oasi di verità e qualità, qualcuno potrebbe creare un facebook alternativo, pieno di urla, complotti, e bufale. Forse avrebbe successo, portando via a Zuckerberg utenti e affari, e riproponendo il problema daccapo in una versione persino peggiore. O forse sarebbe un flop. Dipende da quanto agli utenti piacciono i fotoritocchi fasulli, i complotti, e le urla. Dipende, insomma, da quanto tutto questo dipende anche da noi. E quindi dalle “colpe” degli utenti dipende, in parte, anche qual è il modo più responsabile per Zuckerberg di esercitare il suo potere.

Insomma, non possiamo permetterci di trascurare le nostre colpe e le nostre responsabilità. Se la tecnologia di oggi consente di sbrigliare le nostre preferenze più discutibili – o persino di creare nuove preferenze che non sapevamo di avere (anch’io rimango ipnotizzato davanti ai video di Tasty) – la risposta più efficace potrebbe essere cambiare preferenze.

Non è un’utopia ingenua, è una cosa che succede piuttosto spesso. Tra gli esempi più recenti: negli Stati Uniti hanno praticamente smesso di fumare, e in Italia ci si sta provando; abbiamo ridotto di tanto le battute stupide su genere e orientamento sessuale; abbiamo persino cominciato ad andare ai matrimoni di persone dello stesso sesso; in queste settimane, un terremoto sta mettendo in discussione vecchissime regole esplicite e implicite sui rapporti tra uomini e donne al lavoro; e mercoledì Mars (produttore degli snack meno salutari della mia infanzia e adolescenza) ha annunciato un investimento di minoranza in Kind, che produce nutrienti snack di frutta secca, viene valutata 4 miliardi di dollari, ed è l’azienda del settore degli snack con la più rapida crescita di questi anni.

Sono trasformazioni confuse, brusche, non sempre lineari. (E a volte non sono per il meglio: vent’anni fa mettere in dubbio l’umanità e l’accoglienza verso i profughi sarebbe stata una posizione insolita ed estremista mente oggi è piuttosto diffusa nel discorso pubblico).

Le cose cambiano, e cambia il mondo in cui viviamo – dalle questioni più frivole a quelle più importanti. E non sempre i cambiamenti arrivano dall’alto. Esagerare il potere dei potenti, in assenza della complicità di tutti noi altri, è altrettanto ingenuo che pensare che le élite abbiano la stessa responsabilità del resto della gente.

Se Zuckerberg leggerà questo mio post, sappia che non lo assolvo affatto. Nel frattempo, voi altri ventiquattro cercate di fare i bravi.

Roberto Tallarita

Studia cose tra diritto e economia, ma ha sempre il cruccio della filosofia. Ha vissuto in Sicilia, a Roma, a New York, a Milano; e ora a Cambridge, Massachusetts. Gli piacciono i libri, i paesaggi americani, e le discussioni sui massimi sistemi. Scrive cose che nessuno gli ha richiesto sin dalla più tenera età. Twitter: @r_tallarita