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«Chiedo venia per questa edizione molto turistica di Ok Boomer!, ma insomma, è stata Pasqua anche per me»

E Meloni? Che cosa ha portato a casa dall’America? Niente che già non si sapesse. La simpatia reciproca e le affinità tra due capi populisti di estrema destra – anche se lei, al confronto di lui, sembra l’ultima gradazione possibile della normalità prima che tutto sprofondi nella pazzia, nella megalomania, e soprattutto nel ridicolo assoluto. Il maschile è decisamente un genere peggiorativo, quanto a boria. Con quei capelli, poi.
Portarlo a Roma è il sogno di lei, la consacrerebbe mediatrice, statista, tessitrice di nuove trame e orditi mondiali, ammesso che ci sia qualcosa di serio da mediare, tra questa nuova America fuori di testa e il resto del mondo al completo. La cosiddetta Europa preferirebbe essere meno cosiddetta e trattare nelle sue sedi naturali, per esempio Bruxelles, così da mettere in chiaro che l’Unione Europea esiste per davvero. Non si sa bene come andrà a finire. Nel frattempo, avendo passato un po’ di giorni da turista in Belgio, posso mettere una parola buona per Bruxelles. Mi è piaciuta molto. Sono sicuro che le cancellerie mondiali, come si diceva una volta, terranno in grande conto questo mio suggerimento.
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Niente mi stanca come visitare un museo o una grande mostra. Dopo un paio d’ore mi sento stremato, e non è solo una stanchezza fisica, è proprio una resa del cervello, è lui che chiede requie – usciamo, per carità, non ne posso più. Non credo c’entri la nota “sindrome di Stendhal”, lo sgomento – quasi una forma di panico – che coglie di fronte a una dose eccessiva di bellezza. Credo si tratti, piuttosto, di una specie di prostrazione da ignoranza, nel senso che dopo poche opere, poche sale, già certifico la sproporzione annichilente tra quello che so (poco) e quello che non so e vorrei sapere (tutto il resto).
Lotto per un po’, mi batto per la mia riqualificazione culturale, cerco di assorbire forme, colori, storie, cenni sull’epoca, leggo tutti i possibili cartellini e cartelloni esplicativi, poi cedo quasi di schianto, voglio uscire e vedere gli alberi, le automobili, i passanti, la salubre mediocrità della vita quotidiana.
Siccome dopotutto sono un maschio, può darsi che contribuisca a questo abbattimento a orologeria (un paio d’ore, poi collasso) anche una certa ansia da prestazione: come si è permessa l’umanità nel suo complesso di produrre una quantità così smisurata di cultura, di arte, di bellezza, da escludere in partenza che io possa conoscerne e capirne più dell’uno per cento (nei momenti di esaltazione arrivo a pensare: il due per cento)?
Per esempio René Magritte, che io credevo fosse fondamentalmente un geniale provocatore – questa non è una pipa eccetera – e collocavo, nel mio rudimentale archivio mentale, tra i surrealisti e basta: come si permette di sbalordirmi a tradimento, in una mattina prima di Pasqua, nel museo di Bruxelles a lui dedicato, enorme, alto tre piani? Ha attraversato – dipingendoci dentro – cubismo, futurismo, metafisica, surrealismo, post-impressionismo (tranne l’astrattismo quasi tutto il Novecento, insomma, era casa sua), dipinto ottocento quadri, disegnato pubblicità e inventato grafica, istruito compagini artistiche, scritto e ricevuto lettere molto aggressive tra pittori (come ci si azzuffava, ai tempi, tra avanguardie nemiche, dandosi del traditore e del venduto, è roba che i talk show odierni fanno sorridere). Un gigante del quale sapevo poco – non sapevo che fosse un gigante, per dirne una.
Davanti a Trois femmes, 1919, opera giovanile (Magritte era del ’98), titolo non ancora stravolto alla maniera surrealista – si tratta effettivamente di tre donne – sono rimasto incantato. Tra i circa duecento quadri esposti a Bruxelles non è sicuramente il più importante, ma mi ha convocato davanti a sé appena entrato nella sala che lo espone, confuso tra tanti altri quadri. Poi, quasi ovunque, le spiagge e i mari, lontani o incombenti, lucenti o tenebrosi, fondale di ogni possibile sogno. E i cieli, che entrano ed escono dalle figure umane e dagli oggetti, li invadono e al tempo stesso ne sono invasi. Una meraviglia.
C’est trop, monsieur Magritte. È veramente troppo per un povero turista pasquale. Il tempo di sostare una decina di minuti alle spalle di una scolaresca seduta a terra, per ascoltare insieme ai ragazzini la spiega (ottima!) di una prof davanti a un grande quadro che non ricordo. Poi subito fuori, sull’autobus, in fuga da Magritte, cercando di non restare impigliato in tutti quei colori e in tutti quei misteri. Quei silenzi. Come si fa a dipingere il silenzio? Magritte lo ha fatto.
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Rubens, invece, mi scusino coloro che sanno, non mi piace per niente. Nella bellissima cattedrale di Anversa le gambone bianchicce e i corpaccioni ritorti dei suoi Cristi mi danno l’idea di bistecche oversize. Chi cerca leggerezza e trova Rubens non può che rimanere deluso, anzi contuso. Capitasse di urtare, anche sbadatamente, uno di quegli omoni e di quelle donnone, l’ecchimosi è garantita. Sgridatemi pure. Rubens non ho mai potuto reggerlo.
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Restando nel figurativo, e però entrando nel personale, ritrovo Lorenzo Mattotti e sua moglie Rina nella nuova galleria che hanno appena aperto, con il figlio Simone, a Ixelles. Arti grafiche, a cavalcioni tra fumetto e pittura, là dove Mattotti è diventato uno dei grandi autori europei. Siamo amici quasi da una vita, ci siamo conosciuti molte estati fa nella casa toscana (tra Bolgheri e Bibbona) di Carlo e Marina Mazzacurati, che è stata una delle case importanti della mia vita. Attorno a quell’enorme tavolo, sotto un albero ancora più enorme, quasi ogni sera d’estate decine di persone mangiavano, bevevano e soprattutto conversavano fino a notte fonda. Di tutto: di cinema, di letteratura, di politica, di calcio (Carlo era talmente interista che non riusciva più a vedere le partite dell’Inter, temendo l’infarto), di cazzate. La risata di Carlo, dopo tanti anni che se ne è andato, ancora mi tiene compagnia, ancora mi solleva.
La cosa più bella, ritrovando gli amici, è che ci si saluta e ci si parla come se ci si fosse visti la sera prima, anche se sono passati anni dall’ultima volta. Non si sente il bisogno di giustificare l’assenza, né la distrazione, non c’è negligenza che possa mettere in discussione il fatto che ci si conosce, e ci si vuole bene. Al massimo si brontola per qualche secondo contro il tempo che passa. Poi subito si riprende a chiacchierare della vita. Così è stato rivedere Mattotti.
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I glicini di Bruxelles più fortunati, perché più esposti al sole, sono in piena fioritura; gli altri inseguono volonterosi, ci metteranno un paio di settimane in più. Non avevo mai visto tanti glicini, si arrampicano a migliaia lungo le facciate di mattoni, sui balconi, attorno ai davanzali. Non c’è strada che non ne abbia almeno un paio. I più anziani hanno il tronco largo e ritorto che chiede (e ottiene) spazio all’asfalto, si sa che il legno vince sempre, nella lotta con il selciato e ogni altro tipo di pavimentazione urbana: perché è vivo. Si muove. Prevale sull’inorganico.
Come tutte le piante di città i glicini di Bruxelles hanno qualcosa di tenace e al tempo stesso di incongruo, sbucano dal marciapiede e ci si domanda come le radici abbiano potuto trovare spazio nel denso strato di condutture, tubi, cemento, asfalto, fino a ficcarsi nella terra gialla e sabbiosa. Nei grandi mucchi che sortiscono da certi cantieri (Bruxelles è un trionfo di cantieri stradali) la terra è così gialla e così fina che sembra curcuma, o curry. C’è una bizzarra sintonia cromatica tra i ristoranti asiatici – vietnamiti, cinesi, giapponesi, coreani, thai, indiani – che pullulano in città e gli enormi mucchi di terra/curcuma che sbucano dal sottosuolo, sollevati dalle ruspe.
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Poi sono tornato a casa, ed è sempre bello. Chiedo venia per questa edizione molto turistica di Ok Boomer!, ma insomma, è stata Pasqua anche per me. Oggi è Pasquetta, il tempo è incerto e mobile, sono passato sopra il Po gigantesco, le golene del Piacentino sono allagate, dicono che siano stati soprattutto il Sesia e il Ticino a scaricare nel Po acqua quanta ne basterebbe per sommergere mezza Pianura Padana. Ma gli argini hanno retto.
So di un’amica, che ha casa addosso al fiume, che ha passato la notte proprio sull’argine, fissando l’acqua nera e non fidandosi di dormire in una casa che è andata sotto già troppe volte. Il grande Po piano piano si placa e cala di livello, un centimetro dopo l’altro. I fossi, qui da me, hanno retto il colpo, fatto il loro dovere, scaricato a valle. Tenerli puliti serve a qualcosa, dunque. Verrà più caldo e più sereno, il grano promette bene, l’erba medica pure. All’erba medica, che Trump vada a Roma oppure a Bruxelles, oppure a Timbuctù, oppure all’inferno, importa niente. Ha ragione l’erba medica. In alto i cuori.