Non in parti uguali, no
«Chiedetemi dov’è la sinistra moderata, in America e in Europa, e ve la so indicare facilmente. Chiedetemi dove è andata a finire, in America e in Europa, la destra moderata, e non saprei dove rintracciarla»

Mi chiedo se abbia avuto una qualche utilità l’arroventato dibattito sull’odio politico che ha occupato molta parte della settimana appena scaduta. Probabile che ognuno abbia la sua risposta. La mia è abbastanza positiva: sì, qualcosina ho imparato.
Per esempio, ho imparato che non bisogna lasciarsi confondere dalla confusione altrui. Chi ha ben chiaro il confine tra la manifestazione delle proprie idee e la violenza (compresa la violenza verbale) ha pieno diritto di sentirsi in pace con le proprie idee e le proprie parole. Dire, per esempio, “le idee e i sentimenti degli americani Maga riflettono una concezione tribale della società, e sono una minaccia mortale per la libertà” è certamente un’opinione forte. Di quelle che poi vanno spiegate, e sull’argomento potrei intrattenervi per ore. Ma non esprimerla, una opinione siffatta, perché è necessario “svelenire il clima”; o perché potrebbe sembrare (ma a chi?) una giustificazione all’assassinio di Kirk, sarebbe profondamente sbagliato.
Il confronto politico, da che mondo è mondo, non è sterilizzabile. Possiamo e anzi dobbiamo darci da fare per convogliarlo dentro regole civilizzate – le famose “regole condivise”, insomma la democrazia – ma non possiamo illuderci che il conflitto e l’animosità che genera siano riconducibili a una informe neutralità. La politica non è un pranzo di gala, potremmo dire parafrasando Mao. O anche, con una citazione più domestica, il celebre “la politica è sangue e merda” di Rino Formica.
Dunque: tenere fermo il punto. Tra pensare che quelli come Kirk (e come Trump) siano la forma moderna della sopraffazione dei forti sui deboli e dei ricchi sui poveri (io lo penso) e sparare a freddo a un oratore inerme come se la vita fosse un videogame, c’è un abisso. E chi viene a dirti che esprimere ostilità nei confronti di Trump equivale ad armare un killer, non è solamente un censore. È un imbroglione: o, in forme più dirette, è un sostenitore di Trump.
La seconda cosa che ho imparato è che bisogna essere molto vigili sulle proprie parole, perché ne portiamo la responsabilità. Né possiamo usare come alibi l’irresponsabilità delle parole altrui: ognuno deve rispondere di se stesso. Ma al netto di questa presa d’atto, che riguarda tutti indiscriminatamente, non è affatto vero che tutti, indiscriminatamente, abbiano contribuito nello stesso modo a incrementare l’odio e l’intolleranza. Non credo esistano “studi scientifici” sul linguaggio medio della destra e sul linguaggio medio della sinistra nell’ultimo paio di decenni, diciamo nel terzo millennio: sarebbe molto difficile, tra l’altro, stabilire i criteri di uno studio siffatto; a partire dalla definizione dei due campi – destra e sinistra –, che hanno margini incerti e molto frastagliati, e non esauriscono certo la geografia politica e culturale di Europa e America (del resto del mondo sappiamo così poco che è meglio astenersi da ogni ipotesi).
Ma in America i toni e i contenuti della predicazione Maga, pienamente confermati dalla prassi liberticida dell’amministrazione Trump e prima ancora da un assalto al parlamento premiato dal nuovo presidente con l’encomio degli assaltatori e la loro liberazione da ogni rilievo giudiziario, bastano e avanzano per sconsigliare un salomonico “la colpa del clima di violenza è di tutti in parti uguali”. No, non lo è. Niente affatto. Per nulla.
Gli eccessi del pensiero “woke” nelle università e negli ambienti culturali, l’intimidazione morale ai danni di chi non si allinea alla ridefinizione censoria del passato (“cancel culture”) sono espressione di minoranze radicali; hanno incontrato forti critiche all’interno del mondo culturale americano e (soprattutto) europeo; e certamente non rappresentano l’opinione media del grosso dell’elettorato “di sinistra”.
Sul fronte opposto, l’idea di una restaurazione nazionalista, religiosa e “bianca” che rimetta le cose al loro posto, cancelli (a proposito di cancel culture) qualunque configurazione dei generi, e delle relazioni umane e familiari, che non sia quella binaria tradizionale, levi dalle biblioteche i libri “degenerati”, strozzi economicamente le università “nemiche”, chieda e ottenga il licenziamento di giornalisti e comici non devoti a Trump, ripudi l’evoluzionismo e rilanci il creazionismo (Darwin no! Bibbia sì!), classifichi i migranti come elemento inquinante della purezza identitaria nazionale, promuova qualunque forma di speculazione economica come socialmente virtuosa e ricacci la povertà nel suo antico stigma parassitario: beh, tutto questo è talmente maggioritario, a destra, da avere vinto le elezioni e essere al governo, dopo essersi mangiato in pochi anni il partito Repubblicano tutto intero.
Chiedetemi dov’è la sinistra moderata, in America e in Europa, e ve la so indicare facilmente. Chiedetemi dove è andata a finire, in America e in Europa, la destra moderata, e non saprei dove rintracciarla. La volontà di discriminazione, di sopraffazione, di esclusione, di censura messa in atto da Trump e dai suoi è così smaccata, così evidente, e infine così violenta, che ogni discorso che richiami entrambe le parti al fair-play suona semplicemente inverosimile.
E in Italia? Beh, se proprio vogliamo passare dai massimi ai minimi sistemi, basterebbe mettere su un piatto della bilancia la produzione verbale dei leghisti dalla fondazione a oggi, e l’intero archivio di Libero e della Verità, per rendersi conto che sarebbe ben difficile mettere sull’altro piatto qualcosa di altrettanto greve.
*****
Impossibile dare atto della valanga di mail che mi sono arrivate dopo il racconto delle mie disavventure con i call center di Sky. E mica solo Sky (anche se Sky, tra i miei lettori, fa la parte del leone). Anche Tim, Vodafone, grandi compagnie di distribuzione di luce, gas, acqua. Una casistica impressionante di persecuzioni telefoniche, omissioni e forzature sempre a sfavore dell’utente, assurdità e illogicità quasi sempre comiche, comunque irritanti. Vedove e orfani inseguiti dalla richiesta di rinnovare il contratto del defunto, o costretti a provarne il decesso come se fossero non dei clienti, ma dei sospettati. Continue proposte di rescindere contratti appena stipulati, riaggiornare tariffe appena aggiornate, verificare le condizioni in atto e sentirsi sciorinare per telefono interi papelli, comma dopo comma, accorati annunci che le leggi sono cambiate (ma non erano appena cambiate?) e questo suggerisce di riesaminare daccapo la propria posizione contrattuale, minacce di spaventosi aumenti se non si provvede subito al suddetto aggiornamento, ingiunzioni di andare subito a leggere il proprio contatore perché anche le incombenze aziendali ormai sono sulle spalle del cliente.
La legge generale sottesa a questo stillicidio orrorifico è bene riassunta da Annarosa: “è impossibile parlare con un operatore in carne e ossa, salvo quando sono loro a chiamarti per chiedere soldi”. Non sei più un cliente da servire, sei una preda da circondare e da stanare, e soprattutto non riesci mai a stabilire un rapporto paritario con “la compagnia”, che è una specie di entità astratta. “La compagnia” puoi immaginarla come una creatura pulviscolare, una nube di algoritmi con la quale è impossibile stabilire un rapporto umano. La voce è quella di Deborah, di Maurizio, di Erica, è una voce umana, ma capisci da subito che, all’occorrenza, non puoi prendertela con lei o con lui. Deborah, Maurizio, Erica, sono come te: innocenti mandati allo sbaraglio dalla compagnia. Il nuovo volto del Capitale è non avere più volto. Sa benissimo dove sei tu: ma tu non puoi più sapere dove ha dimora lui. È in fuga tra le galassie, e ha portato con sé il bottino.
*****
E a proposito di Capitale: sono sicuro che ben pochi tra i miei lettori sotto i sessant’anni sappiano chi era Fausto Amodei, che se ne è andato pochi giorni fa. Fece parte del gruppo del Cantacronache, a cavallo tra musica popolare e letteratura, e anche se è famoso soprattutto per I morti di Reggio Emilia ha scritto una manciata di piccoli capolavori “politici”. Tra questi, ho sempre trovato formidabile Il tarlo (1963) che è un vero e proprio compendio del Capitale di Karl Marx in soli tre minuti. Da ragazzo sapevo anche cantarla accompagnandomi con la chitarra, e non era facile perché il giro di accordi è complicato e mica li trovavi on line. Dovevi arrangiarti a orecchio o comperare lo spartito, a trovarlo (a Milano: da Ricordi in Galleria e da Monzino in via Larga). Nel Tarlo c’è tutto: l’accumulazione originaria, lo sfruttamento, il plusvalore, i monopoli. Al tempo stesso scientifico e molto spiritoso. Qui sotto il testo, vale la pena leggerlo, aiuta anche a capire meglio perché, in quegli anni, la classica “epoca breve”, ci fu la famosa egemonia culturale della sinistra. Ve lo dico io: perché non c’era gara.
“In una vecchia casa, piena di cianfrusaglie,
di storici cimeli, pezzi autentici ed anticaglie,
c’era una volta un tarlo, di discendenza nobile,
che cominciò a mangiare un vecchio mobile.
Avanzare con i denti per avere da mangiare
e mangiare a due palmenti per avanzare.
Il proverbio che il lavoro ti nobilita nel farlo
non riguarda solo l’uomo, ma pure il tarlo.
Il tarlo, in breve tempo, grazie alla sua ambizione,
riuscì ad accelerare il proprio ritmo di produzione:
andando sempre avanti, senza voltarsi indietro,
riuscì così a avanzare di qualche metro.
Farsi strada con i denti per mangiare, mal che vada,
e mangiare a due palmenti per farsi strada.
Quel che resta dietro a noi non importa che si perda:
ci si accorge, prima o poi, ch’è solo merda.
Per legge di mercato, assunse poi, per via,
un certo personale con contratto di mezzadria:
di quel che era scavato, grazie al lavoro altrui,
una metà se la mangiava lui.
Lavorare per mangiare qualche piccolo boccone,
che dia forza di scavare per il padrone.
L’altra parte del raccolto ch’è mangiata dal signore
prende il nome di “maltolto”, o plusvalore.
Poi, col passar degli anni, venne la concorrenza
da parte d’altri tarli, con la stessa intraprendenza:
il tarlo proprietario ristrutturò i salari
e organizzò dei turni straordinari.
Lavorare a perdifiato, accorciare ancora i tempi,
perché aumenti il fatturato e i dividendi.
Ci si accorse poi ch’è bene, anziché restare soli,
far d’accordo, tutti insieme, dei monopoli.
Si sa com’è la vita: ormai giunto al traguardo,
per i trascorsi affanni il nostro tarlo crepò d’infarto.
Sulla sua tomba è scritto: PER L’IDEALE NOBILE
DI DIVORARSI TUTTO QUANTO UN MOBILE.
CHIARO MONITO PER I POSTERI QUESTO TARLO VISSE E MORÌ”
*****
Fa caldo, di nuovo, ma il caldo di settembre è gentile e rispettoso, dura fino a che dura la luce. Appena il sole tramonta l’aria si fa frizzante e bisogna mettersi qualcosa addosso. E di notte ci vuole una coperta: di lana, non basta il cotone. Al mattino il risveglio rimette al mondo come in nessun altro mese dell’anno, tutto è fresco e lustro, viene voglia di mettersi in cammino. Non posso ancora farlo come vorrei, ho ancora da scontare un poco di convalescenza ma ormai ho imparato a portare pazienza. Non ci crederete ma la cosa che mi dispiace di più non è tanto perdermi la migliore annata di funghi degli ultimi decenni. È non potere scendere al fiume per raccogliere gli elianti, quelle fantastiche margherite gialle che sono il fiore del topinambur. Sono alte come persone, sono il saluto finale dell’estate e mi ricordano Stefano Benni.
Poche Zanzare, i titolisti battono la fiacca, ci aggiorniamo alla prossima puntata. Questa settimana pare che quassù, nel selvaggio Nord-ovest, pioverà, e non mi dispiace. I campi e i boschi hanno una certa sete, e se la sete di settembre non è la dura arsura estiva, sarà pur sempre bello vedere rinverdire i prati per un’ultima volta, prima che arrivi il freddo. Prime foglie gialle sui gelsi e sui carpini, seguiranno a breve gli altri alberi. Presto accenderemo la stufa a legna, e sarà un bel momento. In alto i cuori.




